Si immerse nel brulichio della città lasciandosi alle spalle l’auto nel parcheggio fresco e coperto. Erano esattamente le dodici di un afoso ed assolato mattino d’agosto. Perugia con la sua antica Università per Stranieri, da sempre luogo di cultura e culture, la mise subito a contatto con la gente a tratti indolente nel suo andare e venire. Non una folla, ma una mescolanza di persone diverse ed al tempo stesso uguali.
Dovette rallentare il passo, davanti a lei, lungo la rampetta che portava alla prima scala mobile -quella esterna- un giovane alto e biondo spingeva uno di quei passeggini per gemelli con un bambino abbandonato al sonno, mentre l’altro, in braccio alla mamma, cercava di attirare l’attenzione con una lacrima. Parlavano tra loro e Diletta sorrise tra se e se; le lingue non erano mai state il suo forte e non capiva un accidente.
Respirò profondamente e pensò che quella era la sua città, ci era nata e cresciuta, ci aveva studiato, aveva fatto tante volte con gli amici “due vasche” per Corso Vannucci, aveva ascoltato i primi battiti del suo cuore e si era spesso nutrita della meraviglia che sempre le offriva Piazza IV novembre, in special modo d’inverno quando il vento gelido soffiava sull’acropoli e sembrava mescolare le mille sfumature di grigio tra cielo, terra e pietra. Anche se ora viveva in un altro posto, la sentiva parte integrante del suo modo di essere con quelle strade in salita come quelle della vita che fatte al contrario diventavano le discese della leggerezza dei giorni buoni.
La sua meta era la Rocca Paolina.
La incuriosiva la mostra ambientata in quei grandi spazi antichi ed austeri, testimonianza della città medievale, scelti da due artisti perugini - di cui uno era stato suo compagno di scuola tanto tempo prima - che avevano titolato il loro progetto creativo “Materia forma colore: l’ultima Crociata”
L’ambientazione era sicuramente suggestiva, la Rocca era il simbolo del potere pontificio sulla città, voluta da Papa Paolo III Farnese nel 1540 e per suo mandato, sorta sulle macerie del quartiere dei Baglioni, nobile famiglia perugina ostile al papato.
All’ingresso della città sotterranea che portava alla Rocca, registrò con un certo fastidio la presenza della donna quasi seduta sulle ginocchia , la mano tesa per l’elemosina, l’altra abbandonata lungo il fianco e l’incessante ritmica cantilena. Un salmodiare che dava maggior enfasi vocale alle parole salute e fortuna.
Era tanto che non passava da lì e pensò con disappunto che alcune cose erano immutate; un tempo avrebbe cercato di immedesimarsi nel vissuto dell’altra per capire, ora non più. Provava sentimenti contrastanti e un lieve senso di colpa, ma era consapevole che lei non avrebbe mai potuto tendere la ciotola per ricevere un gesto di carità, non ne avrebbe avuto il coraggio.
Nella sua mente prese forma il Gautama Siddhartha di certe letture che, alla ricerca dell’illuminazione, si dedicò all’ascetismo osservando il silenzio e vivendo di quello che la gente gli offriva.
Pensieri fugaci.
Certo non ci avrebbe fatto caso se, come aveva considerato in un primo momento, avesse preso accordi per andare insieme a Carmela o Margherita, magari camminando una accanto all’altra nel fitto racconto delle proprie vite. Invece era volutamente sola, per assaporare ogni sussulto dell’anima in questo spazio di libertà che si era concessa.
Giunse alle scale mobili ed era già dentro la Rocca; fu un attimo, da quei gradini rotanti, metallici, moderni, utilissimi, si trovò immediatamente catapultata alla pietra, alla luce intima e avvolgente, al silenzio mistico che induceva all’ascolto di sé per percepire nella contemplazione della realtà visiva, la presenza divina.
Le era capitato anche in altre circostanze.
Non c’era troppa gente, bene! Del resto aveva scelto apposta l’orario del pranzo.
Subito, quei cavalli meravigliosi le parlarono di storie lontane, le sembrò di percepire nel silenzio, echi di ferraglia e grida di cavalieri. Le pareva, avanzando, di avere una cotta di maglia fatta di quei piccoli anelli di ferro, di sentire il sudore scendere dalle tempie come se, anche lei fosse un cavaliere come quello che aveva davanti, dipinto in piedi, chiuso nell'armatura su quella terra rossa di sangue o come quelli a cavallo in battaglia tra lampi di mille colori.
Senza un perché apparente, il pensiero in libertà, le portò l’immagine delle donne senza volto e identità coperte dal burka, prigioniere dei loro stessi vestiti e non solo.
Le tornarono in mente le storie delle crociate combattute tra l’undicesimo e il tredicesimo secolo, tra i Cristiani d’Europa e i Mussulmani, nei vari tentativi di arginare le conquiste di territori e l’assoggettamento di popoli.
Conversioni forzate o difesa della propria professione di fede? I Cavalieri medievali partiti per le crociate si consideravano “pellegrini” in atti di rettitudine, ma guerre e conquiste in nome della religione erano fatte anche di razzie, saccheggi, massacri. Da entrambe le parti.
Con la speranza di captare ogni particolare, camminava lentamente Diletta, vagava con lo sguardo tra i diversi volumi delle strutture e le differenti architetture alla ricerca delle pietre della via Bagliona, individuabili tra i mattoni usati da Sangallo. La fantasia con forza dava corpo a mille immagini, suoni ed odori di tempi lontani, come se dentro di lei emergessero memorie stratificate di altri vissuti. In quello spazio diluito, i cavalli lungo il percorso la catapultarono in un mondo remoto ricco di sentimenti contrastanti. Al morello libero, forte, fiero, con la fluente criniera nera come la pece che la guardava e sembrava dire “vedi, son riuscito ad evitare la battaglia”, si contrapponeva quello d’argento testa a terra come a brucare prima della partenza, muso liscio criniera aperta al vento da sembrare quasi un’ala, armonioso, elegante, in attesa di una mano allungata per una carezza. E poi che dire della sofferenza del cavallo sotto la barda, chiuso in se stesso, mesto, come isolato dal branco con una identità da battaglia, ma quasi senza vitalità, già consapevole di dolore e di morte.
Ogni cavallo raccontava la sua storia, come a rappresentare gli umori di tutti i Cavalieri; bestie che sembravano assorte in antichi pensieri e celavano nei musi, forza ed umiltà. Un’ atmosfera che le creava tante suggestioni ed induceva al sogno.
Ecco Paolo, lo scultore, lo vide andarle incontro con andatura lenta come se anche lui sentisse nelle gambe i giorni delle battaglie, conscio che l’ultima crociata è sempre in corso e si gioca senza cavalli.
“Ciao Paolo, è bellissima” disse Diletta tornando al presente.
“Ti piace” chiese lui prendendole le mani in segno di saluto, “l’hai visto?”
“Cosa?” rispose lei.
Paolo la guardò dubbioso “il cavallo all’entrata, quello grande”.
Ora era lei ad essere perplessa. Lui si voltò verso una di quelle “stanze” concatenate fatte di strade, slarghi, piazzette, con pareti altissime e volte che toccavano il cielo ed anche lei volse lo sguardo e mosse di nuovo i passi.
“E’ quello all’ingresso” confermò Paolo.
Per uno scherzo del fato Diletta aveva fatto il giro inverso, era entrata dall’uscita.
Impressionante, maestoso: il manto del color della cannella, striato di riflessi dorati e sabbia, la muscolatura tesa nello sforzo dell’impennata, petto ampio e muscoloso, froge larghe e mobili come in un esercizio faticoso.
Rampante. Gli zoccoli sembravano muovere l’aria, criniera al collo e orecchie dritte come fosse in ascolto.
“E’ alto cinque metri” fece in tempo a dire Paolo prima che una coppia di visitatori ne reclamasse l’attenzione.
Dopo un tempo di silenziosa contemplazione dell’animale in completa armonia con il contesto, si incamminò per fare giro dal “senso giusto” per scoprire, come sempre, che è importante vedere le cose anche da un’altra prospettiva.
Nella sala della Cannoniera l’altro compagno di avventura di Paolo, Mauro, era solo; buona occasione per conoscerlo e parlare con lui della fatica di un percorso creativo portato avanti per mesi. E come non posare lo sguardo sulle nude pareti della Rocca, bellissimo sfondo a quest’esercito in costruzione fatto di cavalieri in battaglia sulle tele e di cavalli solitari lontani dalla battaglia! Animali che sembravano indicare agli uomini la possibilità di una strada per la convivenza. In fondo, rifletteva Diletta, anche l’architetto incaricato da Papa Paolo III, - Antonio Sangallo il giovane – aveva cercato per quanto possibile, di usare sensibilità nella costruzione, rispettando le origini antiche della città etrusca, recuperando e riutilizzando le pietre di Porta Marzia ancor oggi uno degli ingressi alla Rocca.
Inglobare piuttosto che distruggere.
Le venne da pensare che nel tempo ci sono state e continueranno ad esserci una mescolanza di tante “crociate”, fatte di opposte visioni di espansione economica, di potere, di ricchezza, di religioni: oscuri disegni che minano la pacifica convivenza dei popoli.
Come le accadeva in alcune circostanze, la mente andò a suo padre che combatteva le sue “crociate” con l’esempio; come negli anni ‘70 quando da operatore, aveva dato il suo contributo alla chiusura del manicomio cittadino che dal 1824 al 1953 aveva cambiato più volte nome, ma non destinazione d’uso.
Luogo che toglieva ai malati il riconoscimento di cittadini. A volte, durante quel periodo di fermento di nuove modalità di cura, la domenica portava a casa a pranzo qualche giovane ricoverato che doveva pian piano riacquistare la normalità dei rapporti sociali, per metterlo nella situazione di sperimentare di nuovo “la famiglia”, prima di porter far rientro nella propria, sconosciuta da tempo per il distacco dovuto all’ingresso nell’istituzione “Manicomio”.
C’era una naturalezza in quei pranzi senza ansia, sempre con la massima attenzione per i suoi cari, per consentire ad ognuno, una riflessione sulla difficoltà incontrata dall’essere umano quando vive l’esclusione e l’isolamento, conoscere la “diversità” per non averne paura e superare l’etichettamento.
Una “crociata” non ancora conclusa, i manicomi per fortuna sono stati chiusi, ma la malattia ha bisogno di risposte più adeguate alle necessità dei pazienti e delle loro famiglie.
Pur non essendo credente, pensò che anche le Crociate di un tempo, legate alla fede del Cristianesimo avevano contribuito, a loro modo, al rispetto per le persone ed al rifiuto per la schiavitù.
Si fermava pensierosa davanti a ogni opera, Diletta, in un continuo mescolare il passato che veniva evocato ed il presente che fuori, in certi giorni di criticità maggiore, le creava sgomento. Nella disomogeneità quotidiana di colori, usi, costumi e informazioni; con il tam tam di ciò che accade in mare, nelle strade, nelle case, in tutti i luoghi del vivere. Come se nella generalizzazione fosse più facile capire, integrarsi e al tempo stesso proteggersi, ma non era così. Certo non facilita i buoni sentimenti chi combatte usando il “terrore”, ma l’uomo civile deve saper distinguere il bene e il male nelle piccole grandi “crociate che al mattino presenta la vita.
Un flash e pensò a Vittoria.
Sua madre, buona e istintiva, sempre pronta a mettersi a disposizione; una donna dal carattere forte. Sulla soglia degli ottanta, vedova da tanto tempo, viveva sola per scelta e amava la sua indipendenza. Ricordò quel giorno che le aveva mostrato contenta la tovaglia comperata da Alì. Diletta aveva le aveva chiesto, “mamma chi è Alì? ”
Lei tranquilla le aveva risposto, “E’ quel ragazzo con il borsone pieno di roba da vendere dal quale ogni tanto prendo qualcosa“
Aveva cercato tante volte di metterla in guardia dai pericoli raccomandandole di non aprire a nessuno, di guardare dal videocitofono, chiamare lei se aveva bisogno di fare spese che potevano andarci insieme e sua madre comprava da Alì, senza usare nessuna precauzione!
“Stai tranquilla Alì è un bravo ragazzo”. Con orgoglio le aveva raccontato di quel giorno che non aveva troppi soldi perché doveva ancora prendere la pensione e quando lui aveva suonato lei gli aveva detto che non poteva comprare nulla, lui l’aveva guardata negli occhi ed aveva sussurrato “Ho fame”. Certo un piatto di pasta poteva cuocerla, aveva immediatamente pensato, in fondo era ora di pranzo anche per lei. Avevano mangiato e poi lui, prima di andare via, si era inginocchiato a terra e le aveva detto “Grazie mamma, quando stasera pregherò lo faro anche per te”
Quale Dio pregava? Qualunque fosse, avrebbe capito.
Il percorso era di nuovo al contrario, si trovò ancora di fronte al grande destriero che la sovrastava. Era assolutamente convinta che anche se nell'allestimento era stato destinato all'entrata, d’impatto in prima linea, anche facendo il tragitto inverso, quell'animale imponente da incontrare alla fine, aveva un senso.
Lui era la sintesi perfetta di tutta la mostra ed ogni passo fatto in precedenza lungo le “strade” della Rocca, ogni riflessione scaturita dal dialogo muto con gli altri cavalli, ogni grido ascoltato da tutte le tele, ogni Cavaliere in battaglia dentro la propria armatura, aggiungevano qualcosa alla sua magnificenza.
Lui era “Materia Forma Colore” .
E mentre scendeva le scale che la riportavano all’auto, timorosa ad ogni gradino, per la mole che le aveva tolto agilità di movimento ma non di pensiero era felice di essersi concessa quelle due ore.
L’arte, meravigliosa espressione dell’anima, aveva assolto in pieno il suo compito. Aveva suscitato in lei una riflessione, aveva riannodato il nastro di alcuni momenti della sua vita, aveva grattato quella patina favorita da un certo isolamento nel quale per scelta viveva. Le aveva mostrato che il tempo, a volte, ci veste di una corazza fatta di indifferenza o di rabbia. L’arte l’aveva riportata ad esercitare il senso critico sulle cose.
Sapeva di essere anche lei un po’ “materia forma colore” nel corpo, nel vivere, nei comportamenti da mettere in atto ogni giorno nel rapporto con gli altri, per ognuna delle emozioni che provava e nei sentimenti che ne scaturivano.
Era talmente assorta nelle sue considerazioni che non si accorse, arrivata al parcheggio, di aver sbagliato piano.
Cercò per circa venti minuti scrutando ogni macchina in cerca della sua, fino a quando, come alla Rocca, tornò indietro e fece il percorso inverso.
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Immagine: Dalla Mostra - Materia, Forma, Colore – L’ultima crociata (2018)
Paolo Ballerani (Scultore contemporaneo)
Perugia, Rocca Paolina -Sala della Cannoniera