Aveva dormito pochissimo e male e alla fine aveva deciso che era meglio alzarsi. Con quella punta di zucchero, anche il caffè del mattino era rovinato: lei lo prendeva sempre amaro. Era stato un gesto fatto senza riflettere, inconsciamente, forse nella speranza di addolcire la sua giornata immersa com'era nei suoi pensieri e nello stato d’animo incerto che da un po’ l’accompagnava.
Ecco un altro fine settimana di solitudine: Giulio andava fuori per lavoro. Nell’ultimo anno era accaduto spesso.
Quando Mara gli aveva chiesto di andare con lui ed approfittare così di quel viaggio per visitare la città, lui aveva detto che non era possibile, che sarebbe stato fuori almeno quattro giorni e che da Milano si sarebbe dovuto spostare nelle zone limitrofe, lei sarebbe rimasta comunque da sola, ma se voleva, poteva approfittare del fine settimana per andare a visitare qualche mostra nei dintorni e seguire la sua passione per l’arte.
Allora si era insinuato in lei il dubbio che lui avesse un’altra donna.
Il padre di Giulio, era mancato sei mesi prima e definite tutte le scartoffie burocratiche, suo marito le era sembrato più euforico, come liberato da un peso. L’aveva sorpresa regalandole una cifra consistente della propria eredità e senza minimamente consultarla aveva messo in vendita la casa paterna.
Per lui, il rapporto con il padre Gino, un uomo dal carattere autoritario e intransigente, era stato problematico fin da ragazzo ed era peggiorato dopo la prematura morte della madre mediatrice degli attriti e dei conflitti in famiglia.
Lei conosceva tutta la storia, erano amici dai banchi di scuola, Mara, Giulio e Andrea: gli inseparabili.
Dopo una laurea in Discipline delle Arti Visive, della Musica e dello Spettacolo e la capacità di cogliere l’attimo, lui lavorava come fotografo con grande disappunto di Gino che non aveva mai assecondato le scelte scolastiche del figlio e men che meno quel lavoro che a parer suo era futile, insignificante, senza prospettive. Invece lui era bravo e aveva subito ottenuto l’indipendenza economica.
Lei con lo stesso percorso di studi, appassionata di grafica e pittura era impiegata in una Agenzia di viaggi culturali.
A ventiquattro anni, la loro giovinezza senza eccessi era sfociata in un matrimonio. Andrea in un primo momento ci era rimasto male come se l’amicizia che li legava venisse incrinata d’incanto.
«Che dici ci sposiamo?» le aveva detto Giulio cogliendola di sorpresa.
Tra loro non c’era una vera e propria storia d’amore, stare insieme era diventata una consuetudine. Certo lei nel suo immaginario si aspettava una proposta di matrimonio con fiori e una cenetta romantica, ma non c’era stato nulla di tutto questo e all’orizzonte non vedeva nessun principe azzurro: gli era veramente affezionata e aveva accettato.
La sua timidezza nel periodo di cambiamento tra fanciullezza e giovinezza aveva trovato in lui un porto sicuro, sempre disponibile, mai assillante. Si volevano bene e le rispettive famiglie avevano dato per scontato un rapporto tra i due.
Il loro era stato un matrimonio tiepido, senza slanci con una intimità, per così dire, diluita. Sembrava quasi che con quella decisione avessero ottenuto un distanziamento dai loro genitori. Giulio non voleva figli, almeno non per il momento: un momento che era durato quasi dieci anni, nonostante le sollecitazioni, nel tempo, del padre di lui.
Vivevano alla periferia della città, in collina, in una casa colonica ristrutturata che sembrava essere sospesa tra il mare ad est, mentre a ovest lo sguardo si perdeva nel panorama sfumato dei monti nell’entroterra, con un grande giardino e un annesso ricavato da un vecchio fienile che Giulio aveva utilizzato sia per gli elementi scenografici accumulati nel tempo di cui a volte aveva la necessità per l’allestimento di un set fotografico, sia come ufficio privato per la strumentazione digitale di elaborazione grafica, per ritoccare e correggere le imperfezioni dei suoi scatti.
Le pareti erano tappezzate di fotografie; alcune sembravano esprimere un malessere, come se, attraverso il suo lavoro avesse uno sguardo lucido sull’universo e le sue storture.
Quel luogo era un modo a parte, il suo mondo quando era a casa. Solo qualche volta, in nome della vecchia amicizia, lasciava entrare Andrea che negli ultimi anni frequentava casa loro sempre più raramente.
Per i contatti con i clienti aveva un piccolo studio nel centro cittadino.
D’istinto, prima di cambiare idea, prese la decisione di andare alla mostra che qualche giorno prima aveva organizzato per un gruppo di persone. La visita alla galleria Nazionale dell’Umbria era della serie “Un capolavoro a Perugia”, questa volta dedicato al - Nu couché 1917-1918 - di Amedeo Modigliani, proveniente dalla Collezione Permanente della Pinacoteca Agnelli di Torino.
Consultò l’orologio; aveva tutto il tempo per prendere il treno, in un paio d’ore ci sarebbe arrivata e avrebbe dato un senso alla sua giornata. Le piaceva giungere a destinazione senza immergersi nel traffico caotico di una giornata d’estate. Poteva anche pernottare fuori e tornare la domenica sera.
Quando dopo più di tre ore raggiunse l’acropoli della città si sentì subito più contenta, ancora pochi passi lungo Corso Vannucci affollato di gente e sarebbe arrivata al Museo: aveva fatto bene a prendere quella decisione e non stare rintanata in casa in attesa di suo marito.
L’atmosfera di quel magnifico androne con le pareti di pietra le diede subito un senso di pace. C’era gente, si mise in fila, fece il biglietto e salì lentamente al terzo piano.
Si trovò avvolta da una semioscurità interrotta soltanto dalla limpidezza della donna raffigurata nel dipinto. Una illuminazione sapiente aveva messo in risalto la ragazza, forse Jeanne Hébuterne, modella e compagna dell’artista, semi sdraiata su quello che poteva essere un letto coperto da un drappo rosso, nuda, a mani giunte, con il corpo separato dal colore dello spazio circostante da un segno scuro. Quasi la posa di una Venere dormiente dipinta tante volte in epoca rinascimentale, se non fosse stato per il volto con le linee semplici che rimandavano alla scultura africana.
Una provocazione? Oppure l’amore e la purezza, attraverso la sensualità femminile?
Non c’era nulla di osceno, non in quella bocca schiusa come un invito, né in quegli occhi dal taglio allungato, senza profondità, lontani da una raffigurazione realistica; apparentemente vuoti, a colore pieno, come fossero delle vere e proprie finestre per l’anima. Mara non capiva come nel 1917 la famosa mostra personale di Modigliani alla galleria parigina Berthe Weill, fosse stata sospesa dalla polizia per “oltraggio al pudore”.
Lei, quando era al cospetto dell’arte sentiva sciogliersi un nodo dentro lo stomaco, come se la vita fosse anche altro, oltre il tran tran quotidiano. Per un attimo desiderò che Giulio fosse lì con lei a vivere quell’atmosfera; pensò a come la loro relazione emotiva fosse quasi amicale, senza slanci, senza passione.
Tornando indietro con i ricordi le sembrò che era stato sempre così. Davanti a - Nu couché - comprese che loro due non si erano mai amati veramente: perché si erano sposati?
Si rese conto che in tutti quegli anni era stata un’appendice di Giulio e aveva finito per trascurare se stessa vivendo una condizione di solitudine e di mancanza di attenzione verso i propri bisogni.
Fu grata a Modigliani per aver stimolato, con quel dipinto, una riflessione sul suo matrimonio, sui sentimenti che ne scaturivano e sulla comprensione di sé.
Doveva fare qualcosa.
Uscendo dalla Galleria Nazionale dell’Umbria capì che era ora di affrontare la vita con una una grinta e una prospettiva diversa e qualche obiettivo personale da raggiungere.
Guardò l’orologio; sarebbe tornata a casa per analizzare meglio la sua situazione matrimoniale e prendere una decisione, ma per il treno c’era ancora tempo.
Corso Vannucci brulicava di gente in vacanza: la giornata era bollente, l’aria greve, soffocante, i tavolini tutti occupati. Si incamminò verso la pasticceria dall’altro lato della strada, per prendere un gelato.
Passando da un luogo in penombra alla strada con la luce accecante dell’ora di pranzo, si faceva una certa fatica a tenere gli occhi aperti; cercò gli occhiali da sole dentro la borsa e mentre li infilava le sembrò di scorgere, qualche metro più avanti, Andrea seduto ad un tavolino con un’altra persona. D’impulso fece per raggiungerlo e salutarlo, poi vide la sua mano posata sulla coscia dell’altro in gesto confidenziale molto intimo. L’ uomo, che era di spalle, si sporse verso di lui parlandogli all’orecchio e gli circondò le spalle con un braccio.
Mara si fermò appena in tempo per vedere che Andrea era completamente perso negli occhi di Giulio.
Vide il cameriere portare il conto, loro due alzarsi e perdersi tra la folla mano nella mano, liberi di vivere in modo eloquente l’amorevole tenerezza e l'affetto che provavano l’uno per l’altro.
Sussultò, cercò di liberare la mente da ogni pregiudizio; non doveva fermarsi alle apparenze, loro erano amici da tantissimi anni, forse si erano incontrati casualmente e le circostanze giocavano a loro sfavore.
Ma Giulio non doveva essere a Milano?
Per un tempo che le sembrò interminabile rimase immobile appoggiata al muro del palazzo per la paura di cadere, con un vuoto dentro che sembrava una voragine, incapace di pensare.
Era come se una lente d’ingrandimento avesse messo a fuoco un’immagine per renderla nitida in modo che gli avvenimenti fossero risultati chiari e definiti e tanti dettagli della sua vita, ai quali non aveva prestato attenzione fino ad allora, avessero un senso.
Tutti gli anni trascorsi insieme a Giulio le sembrarono un’invenzione, una rappresentazione in favore di altri.
La coscienza di dover fare qualcosa per il suo matrimonio vissuta difronte a - Nu couché – in quel momento era la consapevolezza che il loro non era stato un vero matrimonio.
Ora doveva davvero fare qualcosa: ma cosa fare? Con chi poteva parlare?
Chiamò un taxi per andare alla stazione e tornare a casa. Nelle ore successive, per tutto il viaggio di ritorno, riannodò il film della sua vita.
Scese dal treno che era buio fuori e dentro di lei; la testa le ronzava come se fosse stata un alveare.
La sua utilitaria era lì, dove l’aveva lasciata al mattino arrivando in stazione; salì in macchina e invece di andare verso casa puntò dritta verso il mare.
C’era una piccola insenatura dove andava spesso quando doveva riflettere, il vento creava onde che andavano ad infrangersi sugli scogli, la luna brillava sull'increspatura dell’acqua.
Si sedette e finalmente pianse.
Perché Giulio l’aveva sposata? Lei era la vittima della reticenza con la quale aveva coperto la sua vita? E Andrea? La loro non era amicizia, ma convenienza.
Si sentì usata e disperatamente sola.
Restò immobile ad ascoltare il mare che le dava sempre sollievo con il susseguirsi ritmico dei flutti, fino a quando, molto lentamente, dopo un tempo che le parve sospeso, si sentì di nuovo calma. Avrebbe preso qualche giorno di ferie e si sarebbe concessa un breve viaggio per riflettere.
Il cellulare continuava a vibrare dentro la borsa. Era Giulio, quando era fuori la chiamava lui, diceva che durante il lavoro era necessario tenere il telefono spento. Che cretina, gli aveva creduto. Aveva creduto a tutte le cose che le aveva detto senza mai mettere in dubbio nulla.
Non poteva parlagli in quel momento, doveva mettere spazio e tempo tra lei e gli avvenimenti imprevisti di quella giornata. Tornò a casa, si preparò una tisana e si sdraiò sul divano; il cellulare continuava a inviarle notifiche.
Stava bene? Era a casa, perché non rispondeva? Giulio inoltrava un messaggio dietro l’altro.
Alla fine decise: “oggi sono stata al GNU di Perugia, uscendo dalla mostra ho potuto vedere che non eri a Milano! Che bel quadretto eravate tu e Andrea, se non fossi stata in preda allo sgomento vi avrei fatto un fotografia. Quando torni a casa io sarò fuori, ho bisogno di un po’ di tempo per me. Intanto pensa al divorzio”
Fu incerta per un attimo, poi schiacciò invio.
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Immagine: Le maschere - 1973 - olio su tela, cm 90x70
Giorgio de Chirico
Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, Roma