lago Trasimeno

La magia del lago

      Era nato lì Marco.
Si appoggiò al parapetto che costeggiava l’antica Rocca e si stupì di come la bellezza entrava nel suo animo nonostante il momento doloroso. Difronte il lago; l’acqua sembrava immobile, velata,  a tratti dello stesso colore del cielo. All’orizzonte, ininterrotto il profilo delle colline. Fin da bambino gli era piaciuto correre tra i vicoli e le piazzette e respirare l’atmosfera dei tempi antichi del Borgo. Passignano sul Trasimeno, da sempre, gli dava l’emozione di un viaggio nel Medio Evo. 
Lasciò vagare lo sguardo sul lungolago ordinato e ben tenuto e sentì l’impulso di scendere giù ed arrivare alle isole. L’Isola Maggiore era bellissima, un piccolo abitato di pescatori risalente al '400, ancora viva e più vicina da raggiungere, ma lui aveva bisogno di silenzio e istintivamente il pensiero corse alla Polvese, alle escursioni fatte già da giovanissimo con suo padre e da solo.
Era l’isola che aveva nel cuore da sempre, si sentiva in sintonia con quel luogo ricco di storia e di vita sotto altra forma. Da quando poi era divenuta Centro per la Didattica Ambientale, riconosciuta parco scientifico-didattico nell’ambito del Parco Regionale del Trasimeno, gli sembrava di essere stato un precursore di quel progetto.   
Era quasi primavera, c’erano già i turisti cellulari in mano, pronti a catturare la meraviglia dei luoghi. Anche lui doveva fare qualche scatto, tempo prima si era iscritto al concorso nazionale “fotografare il lago-acqua e non solo” ed aveva pensato subito al suo lago. Non era un fotografo  professionista, ma gli era sempre piaciuto cogliere nella natura, quelle che definiva invocazioni alla primavera dell’anima, e in quel momento ne aveva proprio bisogno. 
    
    La vibrazione del cellulare lo riportò bruscamente alla realtà. 
«Come stai, ti fermi ancora? Domani parto per le conferenze a Londra» Arianna era sempre diretta; nella quotidianità era una dote che apprezzava, ma in certi momenti gli sembrava troppo pratica, sempre di corsa come se lo spazio personale di chi le stava accanto fosse una perdita di tempo. Era questa mancanza di sintonia dello spirito che non gli aveva ancora consentito di proporle una vita in comune, una sola casa, un futuro solido. Lei sembrava contenta così: il lavoro primo obiettivo della sua vita.                                                      
«Fra qualche giorno rientro, devo sistemare un po’ di cose della casa e di Anna e poi vediamo, ti faccio sapere» rispose Marco.
Tra Arianna e i viaggi per il suo lavoro di architetto, era tornato meno di un tempo. Anna, sua madre, donna autonoma, allegra e sensibile era vedova da tanto. Ad un tratto, si era accorto che non poteva più stare da sola. La voce sospirata, la perdita di massa muscolare, la pelle secca e ruvida con piccole e grandi rughe erano chiari segni di senilità, ma quello che l’aveva sorpreso era la difficoltà di attenzione e a tratti la perdita totale di memoria figlie di un lento declino cognitivo. I controlli effettuati avevano dato il responso doloroso del progressivo e inesorabile morbo di Alzheimer. 
Per fortuna c’era Celestina. Nata e cresciuta nel borgo non si era mai sposata ed era benvoluta da tutti. Rimasta sola dopo la morte dei genitori accuditi amorevolmente si era resa disponibile alle cure degli altri e aveva accettato di trasferirsi da Anna con un contratto di assistente familiare per aiuto alle persone. Nonostante i costi che improvvisamente si era trovato ad affrontare, per Marco era stata una benedizione. 
Poi in pochi mesi tutto era precipitato; quando tornando a casa sua madre non lo aveva riconosciuto era rimesto sconvolto. Celestina gli aveva detto che a volte non riconosceva nemmeno lei e le chiedeva chi fosse e perché stava in casa sua. Marco sapeva che Anna aveva momenti di disorientamento sempre più frequenti, una difficoltà nei movimenti che la costringeva a letto intervallata ad agitazione psicomotoria e allucinazioni. Non era più interessata a nulla, come fuori dal mondo. 
Quando era arrivato, per l’aggravamento della situazione, lei lo aveva guardato con occhi vacui e gli aveva detto che suo figlio Marco non sarebbe stato certo contento di sapere che c’erano estranei in casa. Rimasto in silenzio, un groppo in gola, era riuscito soltanto ad accarezzarle una mano.
Pochi giorni dopo l’aveva accompagnata in un ultimo viaggio mesto e doloroso ed ora si sentiva disperatamente solo, senza radici.

    Il traghetto si mosse lentamente da San Feliciano in direzione dell’isola Polvese. Aveva scelto di imbarcarsi da lì per fare una traversata più breve, in meno di quindici minuti sarebbe approdato al pontile di attracco. Marzo regalava giornate mutevoli, l’aria improvvisamente più umida e un piovigginare lento, quasi impercettibile. Le gocce e la leggera brezza formavano sulla superficie dell’acqua quasi una trama, come pennellate di un pittore con un solo colore declinato in mille sfumature; come i pensieri di Marco. 
A terra tutto tornò ad essere consuetudine come quando con suo padre andava alla scoperta di animali e piante per conoscere le differenze e le somiglianze delle cose intorno a loro e catalogare, blocco notes alla mano,  forma e sostanza della flora e della fauna del lago. Era nata allora la sua passione per la natura e per la fotografia che gli consentiva di fissare immagini particolari di uccelli in volo, di nidi, di foglie di mille colori e fiori appena schiusi. 
Tante volte, da ragazzo, con la piccola imbarcazione di legno di suo padre aveva attraversato il lago fino alle isole. 
Passò davanti alla Villa edificio con circa duecento anni sulle spalle con il frantoio, la casa colonica ed il deposito per gli attrezzi agricoli. Gettulio, il custode, insieme ad un’altra famiglia era l’unica presenza stabile sull’isola; avanti con gli anni, era parte di quel luogo alla stregua delle numerose folaghe che nel canneto poco distante si muovevano rumorosamente alla ricerca di cibo. 
Da tempo non si incontravano e Gettulio, contento di scambiare una parola, lo invitò ad entrare per un caffè. Marco accettò e disse che sarebbe rimasto sull’isola per la notte. Gli mostrò lo zaino nel quale custodiva il sacco a pelo e la macchina fotografica e raccontò il suo progetto. Avrebbe iniziato col fare fotografie al Castello, la fortezza medievale edificata per proteggere gli isolani; un pentagono irregolare con il lato maggiore lungo la sponda meridionale e il mastio svettante nella direzione opposta, in posizione dominante di controllo territoriale dall’XI Secolo.
Avrebbe proseguito verso il giardino di piante acquatiche e dal balcone dell’Ostello ammirato tutta l’isola ed il lago che, prima del buio, meritavano certamente qualche scatto. Poi, costeggiando il canneto, sarebbe risalito fino al Monastero dei Monaci Olivetani e alla Chiesa di San Secondo. Sicuramente, con le ombre della notte, i resti della cripta e parte delle mura perimetrali potevano creare delle suggestioni. Lì avrebbe trovare riparo durante le ore più buie per non disturbare gli animali, poi prima dell’alba, attraverso il piccolo bosco di lecci ad alto fusto, sarebbe sceso  verso la spiaggia nella speranza di fotografare uccelli e pesci. Gettulio lo ascoltò attentamente e capì che le foto erano un pretesto per un solitario viaggio della memoria. Dopo essersi assicurato che avesse almeno un panino e un po’ d’acqua per la sera gli disse che sarebbe stato contento se il giorno dopo si fosse fermato a mangiare con loro come ai vecchi tempi. Marco ripensò con nostalgia all’accoglienza delle famiglie ancora presenti quando andava all’isola con suo padre. 

    I ricordi furono la sua guida, ad ogni passo gli tornarono in mente momenti felici della sua giovinezza quando dopo ogni escursione, tornando a casa, sua madre incurante della temperatura  li accoglieva sorridente con un piatto fumante. Ora non avrebbe più goduto di quel trattamento che celava immenso affetto e protezione.
Lo scenario mutava con il cambiare della luce su ciò che restava di costruzioni imponenti che custodivano silenziosa memoria delle gesta di uomini che il tempo aveva trasformato in storia.  
Dal balcone dell’Ostello, a quell’ora insolita col buio incombente, il lago rosso-dorato dagli ultimi riflessi del tramonto gli era sembrato quello della pittura futurista di Gerardo Dottori che aveva trasformato, con l'aero pittura, il lago in visioni simultanee, sintetiche, dilatate, distorte e insieme dense di misticismo. Non sapeva quanti scatti aveva fatto. 
La notte, dentro al sacco a pelo appoggiato ai grandi ruderi che un tempo erano cenobio benedettino degli Olivetani, era passata senza dormire un solo momento, in simbiosi col canto della brezza e i fruscii di piante e animali. Lì, in perfetta solitudine, in quel silenzio apparente, aveva pianto la perdita di Anna.
    
    Al primo chiarore, le voci ritmate dei cormorani mescolate a quelle delle folaghe, dei tuffetti e delle anatre annunciarono il mattino e l’accompagnarono verso la spiaggia. Il  gruppo consistente di uccelli si alzavano e volavano a pelo d’acqua formando, con il loro passaggio, immagini sulla superficie. Scatti su scatti da posizioni insolite, poi ripose tutto e restò immobile a respirare la magia del lago.
A gambe incrociate, quasi a toccare la riva, fissava sua madre che dall’acqua trasparente lo guardava, gli sembrò quasi di sentirne la voce «Carlo ti voglio bene». Forse una suggestione, solo un’ombra nel lago. Improvvisamente fu silenzio, il pensiero lo trasportò in un mondo sottile di interazione tra diverse forme di energia. Era impietrito, Anna gli sorrideva come a consolarlo per non averlo riconosciuto, lui la chiamò e la magia svanì. Una piccola tinca salì in superficie creando onde e spruzzi.  
Chiuse gli occhi per trattenere quell’immagine colma di serenità con la consapevolezza che non avrebbe tagliato il cordone ombelicale con il Trasimeno, non poteva vendere la casa come gli aveva suggerito Arianna nell’ultima telefonata. Quello era il porto sicuro dove approdare ogni volta che lo spirito lo avesse richiesto. 
Doveva dare un tempo diverso alla sua vita; sarebbe tornato presto.

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Immagine: Fotografia

Daniela Lalleroni
Daniela

Salve, sono Daniela, una
ragazza del '53 con la mente
rivolta al presente.  
É tempo di seguire uno 
dei sogni che ho da sempre: 
scrivere.

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