artemisia

Artemisia, il profumo dei ricordi

    Era arrivata volutamente in anticipo per respirare da sola quel momento. Verificare che tutto corrispondesse ai suoi desideri. O alle sue paure?
Era in pieno marasma. Ancora non si capacitava di come si era fatta convincere a percorrere quella strada. Presa la decisione, ogni giorno, si era chiesta se aveva fatto bene. Lei dipingeva per se stessa, non aveva mai pensato ad una mostra; i suoi quadri, i suoi schizzi, i suoi disegni erano cose personali, non amava mostrarli nemmeno in casa.
Più che disegni e colori erano un modo di mettere sulla carta ciò che sentiva. I suoi sentimenti, i suoi pensieri, il suo intimo modo di esistere. Le sue visioni.
Di una cosa era certa, non li avrebbe mai ceduti, ammesso che qualcuno desiderasse averli.
Girò la chiave ed il portone cigolò sulla sua "personale". Erano le quattro del pomeriggio, aveva più di un'ora per starsene sola, in pace, dentro quella penombra tagliata dalle lame di luce che filtravano tra le imposte. Prima di chiudere fuori il mondo, diede un ultimo sguardo alla locandina che accanto al portone recitava: " Artemisia, il profumo dei ricordi"
Alla fine l'aveva spuntata. Francesca le aveva fatto mille pressioni sui punti di forza da tenere presenti per una buona riuscita. Quando le aveva mostrato l'elenco delle cose da fare, aveva sorriso tra se e se. Non si erano trovate d'accordo quasi su nulla, a cominciare dal titolo. È troppo romantico, le aveva detto l'amica, ma su questo era stata irremovibile. Non aveva ceduto.
Per carità Francesca era una professionista della comunicazione, sapeva come organizzare un evento. Il problema era proprio quello, Artemisia non voleva che fosse un evento.
Aveva immediatamente stabilito il budget affinché l'amica non si lasciasse prendere la mano. Alla fine, avevano optato per quelle due salette comunicanti, al piano terra di un vecchio palazzo nel centro storico di Perugia. In una via secondaria.
Una piccolissima galleria d'arte che aveva ospitato più volte artisti emergenti e ogni tanto presentazioni di libri di autori del territorio. Il giorno prima, insieme, avevano dato un un ultimo sguardo all'allestimento, controllato tutti i gruppi di acquerelli, i disegni collegati e le etichette di presentazione. Aveva più volte riletto quello che pomposamente si definiva catalogo. Le piaceva l'illuminazione scelta; metteva in risalto ogni particolare, ogni tratto, ogni sfumatura di colore.
Nel suo intimo, avrebbe desiderato una collaborazione con un paio di amici di vecchia data che a suo parere erano dotati di un'espressione artistica notevole. Uno scultore ed un pittore di cui aveva più volte ammirato le opere in mostre di discreto successo. Non era stato possibile, loro stavano preparando una manifestazione che richiedeva un impegno maggiore; o forse chissà, non la reputavano alla loro altezza, aveva pensato.
Francesca le aveva detto "meglio così, sono già noti", lasciando quasi intendere che la loro presenza avrebbe oscurato i suoi lavori di artista sconosciuta. In realtà a lei non sarebbe importato di avere un ruolo di secondo piano, le opere di Giorgio e Pietro le piacevano così tanto! Sarebbe stato un privilegio far vivere, alla sua produzione di acquerelli, l'emozione di "mescolarsi" con la loro arte. Si fermò a guardare l'insieme, chiuse per un attimo gli occhi e respirò profondamente. Fu come un fiume in piena l'impatto che ricevette da "canto d'amore", il piccolo gruppo di dipinti e disegni a tema che le vennero incontro.
La trasposizione sulla carta di una suggestione.

    L'aria era fresca, il giorno non ancora baciato dal sole. Quell'ora del mattino quando sembra che tutto tace e la luce si posa sulle cose senza dare vita ai colori. Camminava per quella strada a ridosso del monte mèta delle sue passeggiate appena sveglia. Le piaceva la solitudine di quei momenti, sentire il fremito di un vento quasi assente accarezzarle il viso. Le piaceva lasciare liberi i pensieri.
Un grido ripetuto, stridulo, quasi un'invocazione. Si fermò all'improvviso. Non capiva bene cos'era. La strada, in quel punto, costeggiava una delle rare case presenti, riparata alla vista da un esteso giardino naturale. Restò in ascolto e pochi istanti dopo, di nuovo quel grido frustrante. Quasi un lamento, seppure acuto. Impressionante. Scrutò tra la vegetazione con timore. Vide, ad un tratto, un meraviglioso pavone maschio esibire tutto il suo splendore in una parata d'amore al fine di catturare l'attenzione di una femmina poco distante. La "ruota" con tutte le penne, in un arco di lucente iridescenza, arma di conquista per comunicare la propria prestanza, cassa di risonanza alla vibrazione delle piume speciali sfregate le une contro le altre. Un ventaglio dalle mille sfumature di blu cobalto, di grigio perla, di verde smeraldo. Una meravigliosa livrea multicolore ed un incedere impettito accompagnavano una serenata gracchiante, un po' sgraziata e fastidiosa che, avrebbe scoperto in seguito, serviva da un lato a scacciare i predatori, dall'altro nella competizione con altri maschi.
Suono e movimento, armi di seduzione. Un narcisista? Forse. Certamente un' esibizione per i favori di una femmina che sembrava assolutamente indifferente.
Artemisia era tornata a casa con quel grido disperato in testa e l'aveva tradotto in sfumature di colore, riflettendo a lungo su come in natura è spesso il maschio che si esibisce per corteggiare e se la femmina non è pronta e non accetta il contatto, deve desistere, arrendersi, attendere momenti più favorevoli. Ed ogni accoppiamento è preceduto da rituali di avvicinamento, di conoscenza, di accettazione. Per alcune specie, una compagna è per tuttala vita.
Tra gli uomini, troppe volte è la donna che snatura se stessa in un contesto ormai fatto quasi solo di visibilità. Come se l'affermazione di sé, faticosamente conquistata, non si nutra di valori, cultura, cervello, ma dell'apparire. Poi, quando il tempo lascia i suoi segni, non ci si accetta più. La ricerca dell'eterna giovinezza assume forme grottesche e oscura lo star bene con se stesse. L'uomo crede che tutto sia a suo beneficio e con in mente una donna ancora subalterna si arroga il diritto del possesso. Qualche volta si arrende alla frustrazione del rifiuto, ma non sempre.

    Ripensando alla genesi di quei quadri, Artemisia, sentì quasi un dolore fisico. La cronaca troppo spesso parlava di femminicidio. Di maschi che non accettano l'abbandono, di femmine che non si accorgono della prigione in cui si trovano e non hanno il coraggio di rifiutare un ultimo incontro che non può essere mai chiarificatore ed è invece quasi sempre fatale.

    Si mosse lentamente verso il secondo gruppo di dipinti "la montagna è donna" e si rese conto che c'era un filo conduttore dentro la carta. Apparentemente quella titolazione faceva pensare al paesaggio, ma non era così.

    Artemisia e Domitilla erano arrivate un po' chiassose, come si è a volte a vent'anni, le guance rosate per le tre rampe di scale. Ad accoglierle un pungente odore di essenza di trementina ed il sorriso, appena accennato, dell'uomo che aprì loro la porta. In mano un pennello, occhi illuminati alla vista della nipote che ogni tanto faceva irruzione nel suo mondo privato portando la spensieratezza della gioventù e qualche amica. Non che Goffredo fosse vecchio, non aveva ancora cinquant'anni; molto gentile, un po' introverso, da qualche anno completamente dedicato all'arte. La pittura era dominante nella sua produzione, ma eccelleva anche in altre discipline. Entrando in quello studio per la prima volta, Artemisia, si trovò sopra i tetti della città. Un osservatorio privilegiato e permanente che rapiva l'attenzione, due finestre affacciate su Perugia baciata dal sole e contemporaneamente in una nebbiolina appena rarefatta. Vecchie pietre ricche di storia. E più avanti, lo sguardo si perdeva sulla vallata e sui borghi antichi della campagna umbra.
Dentro lo studio l'immersione in mille mondi. Laghi, alberi, campagne, luoghi della vita; dipinti che traboccavano d'amore. Paesaggi interpretati secondo una personale visione della natura. Luminosità del colore e forza cromatica delle pennellate, sintesi della ricerca interiore. Poi volti di donna carichi di vitalità emotiva, dolce e severa allo stesso tempo. Compagne mute di una solitudine manifesta, concentrato di voli interiori misteriosi, alla scoperta di altre dimensioni della mente e dell'anima.
Artemisia, un po' spaesata da tutto questo, stava quasi in disparte. Al commiato, Goffredo le disse "torna, per favore, vorrei farti il ritratto, sei così pensosa" lei abbozzò un sorriso sottraendosi per un attimo alla sua timidezza, rimase qualche secondo come sospesa, in attesa, poi, spronata anche dall'amica Domitilla rispose "va bene, quando?", "anche domani, se vuoi" disse lui, lo sguardo serio, improvvisamente malinconico.
Seduta, immobile, sguardo fisso a cercare un appiglio fuori dalla finestra, Artemisia si rese conto di aver fatto un errore. Era diverso da quando, nell'aula di disegno dal vero dell'Accademia di belle Arti, lei disegnava guardando le modelle. Un altro punto di vista.
Lui sembrava perduto in un mondo tutto suo mentre abbozzava il suo ritratto, la guardava ed era come se non la vedesse. Incurante della corporeità di Artemisia, pareva alla ricerca della anima di lei per scrutarne il sentire e trovare l'ispirazione dentro il suo evidente disagio.
Si sentiva sospesa in un mare in tempesta, senza un approdo, in balia delle onde. Le dolevano tutti i muscoli nello sforzo di stare immobile e dominare l'ansia che l'attanagliava. Il tempo sembrava dilatato, interminabile. Ad un tratto Goffredo posò il pennello, le passò accanto e con il dorso della mano le fece una impercettibile carezza sulla guancia. "rilassati" disse, "per oggi basta".
Seguì un silenzio pesante, un'aria quasi irrespirabile. Mentre lei cercava di darsi un contegno, ossigenando il cervello con un profondo respiro, lui le chiese "com'è che ti chiami Artemisia?"
Non lo sapeva e si stupì un po' della domanda. "se ti va potrei farti il ritratto nuda" disse Goffredo parlando quasi a se stesso. "sarebbe magnifico, posso insegnarti anche a dipingere, vai all'Accademia, no ?" Sembrava perso nei suoi pensieri, lo sguardo tristissimo.
Fece le scale quasi correndo Artemisia, in cerca di uno spazio meno angusto. Non sapeva nemmeno se lo aveva salutato. Ricordava solo un "te lo farò sapere" figlio di un tu innaturale, visto che poteva essere suo padre. Era in preda al panico, si sentiva una sciocca. L'emancipazione, il femminismo, le lotte, poi quando una cosa capita a te, il tumulto.
Dopo due giorni di marasma mentale, chiese a suo padre " perché mi chiamo Artemisia?"
" È un bel nome che contiene la parola arte" rispose lui sorridendole " ed è anche una pianta con dei grappoli di fiori gialli e delle lucenti foglie di un verde brillante". Bene, era bello avere il nome di una pianta!
Quando chiamò Domitilla per raccontarle la proposta di suo zio, l'amica le chiese se conosceva la storia della pittrice Artemisia Gentileschi.
No, non la conosceva.
Così scoprì che quel nome era appartenuto, nel tardo '500, ad una ragazza figlia del pittore Orazio che stimolata dal talento del padre si era avvicinata alla pittura frequentando a lungo la sua bottega e perfezionando le proprie doti. Nonostante in quel tempo le arti pittoriche fossero una pratica maschile, aveva mostrato capacità innate. Il Gentileschi orgoglioso della figlia, per aiutarla l'aveva mandata da un artista che a dispetto del passato burrascoso, lui stimava. Nella bottega di Agostino Tassi, dopo aver resistito a ripetute proposte sessuali, subì uno stupro che ebbe gravi ripercussioni sulla sua vita. La vicenda la espose ad un lungo e molto umiliante iter processuale che nel 1612 stabilì una condanna, a discrezione del Tassi, tra cinque anni di reclusione, una sanzione pecuniaria o l'esilio perpetuo da Roma. Optò per l'esilio, ma non scontò mai la pena.
Visioni antiche, in parte ancora attuali, sui fatti di stupro.
Questa scoperta fu come un macigno posato sulla sua mente. Quel riferimento di Goffredo al suo nome, quella proposta di posare nuda, accanto all'offerta di essere per lei mentore nella pittura, dilagavano dentro i suoi pensieri provocandole una grande confusione mista ad angoscia.
Lasciò passare qualche giorno e il tempo mise una distanza tra le cose. Non andò più a studio e la sua amicizia con Domitilla inspiegabilmente si affievolì.
Si persero di vista.
Tanti anni dopo, li incontrò ad una mostra di pittura, ma non trovarono nulla da dirsi se non un saluto frettoloso. Le era rimasta la visione spirituale della natura che Goffredo fissava sulle tele e quei malinconici ritratti di donna. Ancora, a distanza di tempo, la natura, il paesaggio mai piatto, gli evocavano donne distese. Ogni ondulazione, ogni collina che riportava sui suoi acquerelli, andavano a costruire immagini femminili. C'era in particolare nel percorso di ogni giorno, un luogo che in qualsiasi ora del giorno, in tutte le stagioni dell'anno, la stupiva. La terra cupa dell'autunno seppur in modo diverso dall'erba luminosa della primavera mossa dal vento o dalla bianca ed incorrotta neve dell'inverno, la facevano pensare alla nudità di corpi languidamente abbandonati.

    Fu con questi pensieri in testa che si trovò difronte a "trasparenze" una serie di disegni e di acquerelli che parlavano di quei giorni in cui guardando il cielo, sentiva le angosce andarsene trasportate dalle nuvole mosse dal vento. Velature di colore strato su strato. Effetti luminosi, stati d'animo, solitudini ed insieme beatitudini. Amava starsene assorta ad osservare il cielo per catturare la sua vitalità, nella apparente immobilità,.
Fece appena in tempo a fissare lo sguardo sulla carta che la voce squillante di Francesca la riportò alla realtà; "che fai al buio? dai aiutami, posa questi fiori sul tavolino, lì, accanto al catalogo" disse accendendo la luce. "Sono artemisie, ho faticato a trovarle, ma dovevano esserci, in omaggio al tuo nome."
Era come se si fosse materializzato suo padre per accompagnarla, sostenerla, darle serenità in quella nuova esperienza.
"Non protestare" la bloccò l’amica prima che Artemisia potesse aprire bocca, mentre dietro di lei due giovani portavano vassoi e bottiglie. "queste le offro io".
Le si avvicinò sorridendo. "rilassati, andrà tutto bene, vedrai".

    Con un sospiro silenzioso mise da parte i suoi ricordi. Era ora di lasciare la porta aperta.

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Immagine: Fotografia

Daniela Lalleroni
Daniela

Salve, sono Daniela, una
ragazza del '53 con la mente
rivolta al presente.  
É tempo di seguire uno 
dei sogni che ho da sempre: 
scrivere.

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