Erano le due del pomeriggio di un caldo lunedì di agosto e Alberto era fermo da più di venti minuti su quella strada alla periferia di Perugia. L’asfalto ribolliva, l’afa saturava l’aria immobile senza un filo di vento. Aveva posato lo sguardo sul profilo della città in lontananza contando decine di volte torri e campanili che disegnavano l’acropoli; doveva salire in centro uno di questi giorni, magari con il minimetrò.
Si era trasferito da poco e il lavoro in Ospedale gli aveva assorbito tutto il tempo, e poi non aveva voglia di amenità. Era stanco, avrebbe gradito un po’ silenzio e di riposo, invece si trovava in mezzo ad un fastidioso concerto di clacson impazienti. Sentì la sirena di un’ambulanza e capì il perché di quella sosta forzata. Presto sarebbero ripartiti.
Il cartello seminascosto dalle piante continuava ad attirare la sua attenzione “vendesi, telefonare allo 075...” registrò il numero sul cellulare mentre la fila cominciava a muoversi. Non aveva ancora trovato una casa e stava in una pensioncina vicino alla stazione ferroviaria: una piccola stanza e una grande difficoltà di parcheggio.
Il Notaio gli aveva dato appuntamento per le diciannove. Quando aveva telefonato per informazioni sulla casa aveva scoperto che prima di poterla vedere, il proprietario voleva conoscere il possibile acquirente. Che stranezza!
Da Franco, il collega che abitava in quella zona, aveva saputo che era disabitata da tantissimo tempo e si parlava di strane presenze al suo interno. Lui non era superstizioso, non credeva agli spiriti e ai misteri, era un uomo pragmatico.
Si trovò di fronte un vecchio la cui magrezza, dentro abiti troppo grandi, denunciava la sua vulnerabilità. Doveva avere molti anni. Lo guardò con interesse professionale, il viso segnato dal tempo, la pelle sottile, fragile, con le macchie della vecchiaia, le mani nodose ma curate. Gli occhi azzurri si accesero quando incontrarono i suoi alla presentazione. Si chiamava Giovanni come suo nonno, che coincidenza!
Il perché dell’incontro fu presto chiarito: la casa, costruita tanti anni prima, era destinata a suo figlio in procinto di sposarsi, ma non vi aveva mai abitato perché era mancato, per un incidente, pochi giorni prima delle nozze. Era già ammobiliata e pronta per viverci e Giovanni voleva farci entrare solo chi fosse stato realmente interessato e non incuriosito dalle chiacchiere della gente che la chiamava “casa maledetta”.
Il geometra, presente per volere del proprietario, gli mostrò la pianta informandolo che al momento solo una parte era agibile; c’era da sistemare una piccola ala quasi indipendente che aveva subito dei danni con il terremoto di quindici anni prima. Per questo il prezzo era così conveniente.
Per tutto il tempo Giovanni aveva continuato a scrutarlo e al momento dei saluti gli aveva stretto le mani con forza, interrompendo con quel gesto un evidente tremore. “Spero di rivedervi Alberto” gli aveva detto con voce sospirata. Così era stato.
Certo c’era bisogno di tanto lavoro. Il terreno intorno, sembrava una giungla, piante ed arbusti avevano preso il sopravvento e la casa era quasi nascosta, ci voleva tempo, ma intanto poteva abitarci. Era in sintonia con il suo umore e la sua voglia di solitudine.
Aprì il frigorifero, prese una birra e si allungò sul divano. Un cigolio lo svegliò di soprassalto; era buio, si era alzato un po’ di vento e si preannunciava un temporale. Si sentiva un insistente rumore di metalli, come di catene che sbattevano tra loro. Accese la torcia del cellulare ed uscì fuori, tra il groviglio della vegetazione c’era una arrugginita banderuola segnavento che faceva il suo mestiere gracchiando ad ogni movimento. Aveva ragione lui a non credere ai misteri: ogni cosa aveva una spiegazione. Si rimise sul divano ad attendere l’alba, stava quasi per riappisolarsi quando sentì una presenza nella stanza, qualcosa gli sfiorava le gambe e due grandi occhi a mandorla lo osservavano nella penombra. Era un morbido gatto bianco con una lunga coda simile ad una piuma, tipica dei gatti d’angora.
Anche Desy ne aveva uno con gli stessi occhi di quell’azzurro trasparente. Scherzando una volta gli aveva raccontato una leggenda che voleva quei gatti dotati di particolari poteri, capaci di far avverare i desideri che venivano loro sussurrati all’orecchio.
Lui non credeva alla leggenda. Desy se n’era andata all’improvviso un mattino di quattro anni prima e lui non riusciva ancora a colmare la mancanza, a riempire il vuoto, ad accettare la sua morte. Non aveva più cercato una compagna. “Ciao Desyderio” disse evocando il nome di lei, gli sembrò che il gatto capisse la tristezza di quel momento di ricordi; allungò una mano per una carezza. Doveva essere entrato quando lui, poco prima, era andato fuori: sembrava tranquillo. Chissà di chi era? Forse dei vicini. Aveva visto delle luci brillare oltre il groviglio di arbusti che ancora c’era davanti alla siepe che separava le proprietà.
Aveva cercato qualcuno che lo aiutasse a mettere in ordine il terreno, ma era stato complicato, quando dava l’indirizzo della casa tutti trovavano scuse e declinavano l’offerta di lavoro. Qualcuno si era lasciato scappare dei commenti sulla “casa maledetta”, sulla morte del giovane avvenuta mentre metteva a posto il giardino e sul fantasma che viveva lì. Lui interrompeva quelle chiacchiere, se avesse detto che ogni volta che camminava tra gli sterpi sentiva il profumo di rose che non c’erano lo avrebbero preso certamente per matto. In compenso Desyderio era sempre pronto ad accoglierlo quando lui rientrava. Sembrava conoscere i suoi orari, la sua presenza e la sua assenza. Era un compagno affettuoso ed intelligente che si accontentava di qualche carezza che ricambiava strofinandosi a lui. Una presenza che mitigava la sua solitudine e gli era sembrato quasi normale, una sera, sussurrargli qualcosa all’orecchio, il gatto aveva risposto con un miagolio come se attendesse da tempo quella richiesta.
Alla fine aveva deciso di perlustrare da solo il terreno intorno alla casa per rendersi conto dello stato di abbandono e dei lavori da fare. La vegetazione copriva gran parte della costruzione verso nord e il secondo edificio, unito solo da un mozzicone di parete, aveva bisogno di lavori importanti. Il notaio gli aveva detto che quella piccola residenza mai usata, destinata alla vecchiaia di Giovanni, poteva anche essere abbattuta senza compromettere il resto, ma gli sarebbe sembrato di mancare di rispetto a quell’uomo gentile che aveva visto piangere quando avevano firmato le carte.
Era ora di chiamare il geometra per dar luogo ai lavori.
Finalmente, dopo tanto cercare, aveva assunto un giardiniere e un aiuto domestico: Amadou, immigrato dalla Costa d’Avorio cercava una occupazione per se e per la giovane moglie. Insieme al lavoro gli aveva assegnato l’alloggio rimesso a nuovo che ora aveva un accesso indipendente ed una piccola striscia di terreno. Nonostante la proprietà fosse ormai sua, aveva telefonato a Giovanni per chiedere la sua approvazione, in fondo quella parte di casa era destinata alla sua vecchiaia. Alberto lo aveva informato che aveva riportato alla luce una piccola statua di pietra segnata dal tempo e accanto, sotto una marea di sterpi, una rosa con un bocciolo fuori stagione. Lui non si era stupito ed era sembrato veramente felice di sapere che tutto tornava alla vita.
Si erano salutati per l’ultima volta.
Fermò l’auto sulla piazzola. La strada parallela a quella di casa sua, dava accesso a quella dei vicini, non c’erano intorno altre abitazioni. Erano giorni che pensava di presentasi per avere notizie di Desyderio; era sparito da quando gli aveva sussurrato all’orecchio!
Si fece coraggio, il suonò del campanello interruppe le note di un pianoforte, fu tentato di scappare via. “ Buon giorno, desidera?”
Si sentì un cretino mentre diceva “Mi scusi, mi chiamo Alberto, sono venuto a trovare il suo gatto”
Quella giovane donna a piedi nudi, con un lungo vestito leggero ed i capelli trattenuti alla sommità del capo da un pennello, non si scompose.
“Non ho un gatto, o meglio, non ho un gatto vivo” rispose sorridendo. Alberto si rattristò immediatamente, ecco perché Desyderio non era andato più a trovarlo pensò sconsolato, la guardò negli occhi “Come è morto?”
Anna pensò per un attimo che fosse uno in cerca di guai; suonare alla porta di casa e attaccare bottone con i saluti ad un gatto che lei non aveva le sembrava una vera stranezza, ma se ne sentivano tante di storie fantastiche. Cercò di non perdere la calma, non dava l’impressione di un malintenzionato e lei era curiosa per natura.
Era quasi ora di pranzo e senza alcuna cautela gli chiese se poteva offrirgli un aperitivo, lui esitò prima di accettare, ma in fondo erano vicini di casa, non c’era nulla di strano, a parte le circostanze.
“Sono Anna, si accomodi” disse facendo strada all’interno.
La stanza era grande e ben arredata, davanti ad una finestra un cavalletto per la pittura, appoggiate al muro tele vuote e dipinti. Dall’altra parte un magnifico pianoforte a coda. Libri ovunque. Sulla parete più grande, dentro una bellissima cornice, Desyderio.
Alberto non riusciva a staccare gli occhi dal quadro. Il gatto sembrava sorridergli sornione, come a dire “ce ne hai messo di tempo per cercarmi” lei se ne accorse, “l’ho dipinto circa quattro anni fa, dopo un sogno” disse.
Come era possibile che un gatto dipinto fosse andato a casa sua tante volte a fagli compagnia? L’aperitivo si trasformò in spuntino, in racconto, in risate, in conoscenza reciproca. Una pianista con la passione per la pittura e un medico che non credeva agli spiriti. Si salutarono che era quasi buio, con la promessa di un nuovo incontro.
Rientrando gli sembrò di sentire un miagolio soddisfatto, ma forse era frutto della sua immaginazione, non c’era nessun gatto. Il mattino successivo, Amadou gli consegnò una raccomandata del Notaio che lo informava della serena morte di Giovanni e dell’eredità sostanziosa che gli aveva destinato.
Era come se quella casa, e Desyderio, avessero scritto per lui, una possibilità di futuro.
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Immagine: Fotografia