C'era un rumore di fondo, un brusio; era stata fortunata aveva il posto accanto al finestrino un po' fuori dalla mischia dei passeggeri. Chiuse gli occhi e fece un respiro profondo.
Il rituale, che non conosceva, aveva richiesto tutta la sua attenzione dandole a tratti un senso di inadeguatezza. Dopo un tempo che le era sembrato interminabile e tutte le formalità espletate, l'imbarco.
Alla stregua della coperta di Linus, teneva un libro tra il busto e le braccia strette al petto. Lo aveva già letto “Il colore dell'anima” e ne era rimasta così affascinata da ritenerlo un ideale compagno di viaggio, colmo di poesia e colori l’avrebbe aiutata a controllare le ansie strada facendo.
Sentiva i passeggeri prendere posto; accanto, dentro una giacca fucsia portata con disinvoltura, un ragazzone dal viso disteso e dalla corporatura massiccia continuava a muoversi in cerca di una comoda postura.
“Ci stiamo preparando al decollo, vi invitiamo a controllare che la cintura di sicurezza sia correttamente allacciata, che il tavolino sia sollevato e bloccato e che il vostro sedile sia in posizione verticale... vi auguriamo buon viaggio" tuonò ad un tratto l'altoparlante.
Finalmente!
« Piacere Alvin, va in America, è la prima volta ?» chiese il suo vicino sorridendo e tendendole la mano.
« Veramente è la prima volta che volo » rispose freddamente Arianna.
Non aveva voglia di convenevoli, non era sua intenzione fare quell’esperienza chiacchierando con uno sconosciuto.
La giornata era limpida, piacevole. Tetti, case, monumenti, paesaggi che cambiavano continuamente: piccoli e grandi insediamenti umani tra zone verdeggianti o montuose. Era bello guardare tutto dall’alto, un continuo mutare di colori, sfumature, tonalità con i raggi del sole che generavano mille riflessi. Lei aveva una fissa per i colori.
Pian piano la tensione si sciolse, la mente si fece quieta, il corpo si rilassò.
Le sembrava di volare, sospesa come in certe giornate soleggiate e limpide durante le passeggiate sul Monte Cucco quando in piedi sul crinale apriva le braccia e chiudeva gli occhi e il vento, mai assente, si insinuava tra le pieghe degli indumenti e sembrava volerla trasportare. Lei amava il vento, le dava un senso di libertà, come quella di una la coppia di aquile che con il loro strido, più di una volta, le avevano fatto aprire gli occhi per godere della meraviglia di vederle volteggiare in aria.
Doveva essersi appisolata perché tutto era mutato, ora era dentro una coltre di nuvole. Galleggiava in un mare di onde rarefatte di grigi in mille tonalità, come le sfumature del grigio di Perugia d’inverno, quello del cielo e quello “grifagno” delle pietre dei palazzi medievali; era sempre felice di camminare per i vicoli e sentire sulla pelle la carezza della brezza sempre presente sull’acropoli della città.
C'era un rumore di fondo, un brusio. Ai primi segni di una consistente turbolenza la paura la attanagliò. Il pensiero delle conseguenze in caso d’incidente, la consapevolezza di essere impotente di fronte agli eventi, l’impossibilità di avere il controllo della situazione e la sua difficoltà di affidarsi ad altri, presero il sopravvento.
Ad un tratto l’esperienza divenne tremenda.
La quiete fu interrotta; sembrava che qualcuno stesse male e c’era una grande agitazione intorno a lei. Per un attimo, le sembrò di essere premuta contro il finestrino e di intravvedere un lago. Di nuovo uno spettacolo di contrasti di colore: i rossi delle montagne sullo sfondo e le aride tonalità di bianco delle rive senza vegetazione di quella conca d'acqua di un azzurro intenso.
Avevano forse già raggiunto il lago Mead? Aveva letto che nel 1948 un B-29 si era schiantato contro le sue acque e giaceva ancora sul fondo. Cercò febbrilmente il giubbotto di salvataggio sotto il sedile: non fu fortunata.
Pensò alla sua famiglia. Mentre scivolava nella profondità scura del lago, le sembrò quasi di averli accanto premurosi come quando era bambina: non sapeva nuotare.
Il rumore si attutì. Il buio avvolgeva ogni cosa.
Sentiva qualcosa lambirle delicatamente il viso, come una carezza rassicurante. Ricordava la delicatezza di una sciarpa di seta; la nota femminile che spesso si concedeva ora poteva essere il "cordone ombelicale" per resistere. Doveva fare in modo che l'acqua che la circondava diventasse il liquido amniotico della vita intrauterina, esperienza nota alla sua mente, quindi da far riemergere, adattare, utilizzare in questo nuovo contesto.
Non c'era vento sott'acqua e nemmeno libertà. Le mancavano.
Doveva rallentare non correre dietro al tumulto delle emozioni, non consentire alla mente di andare a zonzo o in letargo, provare a ragionare per dare forma ad una strategia.
Pensò a quando in casa camminava al buio, con gli occhi chiusi e le mani protese verso gli oggetti per dare spazio a tutti i sensi: il tatto per riconoscere le superfici ruvide o lisce, calde o fredde, sentire gli odori delle cose, ascoltare gli scricchiolii della casa, orientarsi nell’ambiente circostante senza vedere. Quando si esercitava la prendevano in giro, ma lei pensava che poiché non sappiamo nulla di ciò che può accaderci, dobbiamo essere preparati. Non era pessimismo come alcuni credevano, era sano realismo.
Ora, doveva allertare tutto il corpo per percepire suoni o vibrazioni e capire dove si trovava; far tesoro del suo vissuto per stabilire il da farsi. Doveva dare alla mente libertà di esplorare nuovi territori. In fondo il senso profondo di ogni viaggio era di essere aperti a nuova conoscenza. Doveva accettare quel buio e quel freddo, ammortizzare la sensazione sgradevole di galleggiare come in una gelatina che pian piano penetrava nella testa congelando i suoi pensieri e contrastare il disagio che sentiva. Doveva impedire all’acqua di entrarle nei polmoni. Avrebbe cominciato con esercizi di concentrazione per favorire il rapporto di influenza reciproca tra il corpo e la mente.
Sentiva accanto un borbottio sommesso, un parlare sottovoce di cui le sfuggiva il senso.
Alvin e gli altri passeggeri dove erano finiti? Non percepiva intorno a sé richieste di aiuto, lamenti, presenze disperate, ma uno strano senso di attesa, un’ansia collettiva che significava che non era sola.
Era preda di visualizzazioni che duravano pochi attimi. Cercava disperatamente di stare agganciata a quelle immagini che all’improvviso comparivano e sfumavano per capire come riemergere.
C’era una città finita a dormire con i pesci: fondamenta, scalinate, oggetti abbandonati, sentì la presenza di esseri umani muti ed immobili, se non per piccoli segni che le inviavano con le mani che lei non riusciva a decifrare. Amici, nemici? Non era sola.
Preparando il viaggio, aveva letto la storia di quel lago artificiale tra il Nevada e l'Arizona a cinquanta chilometri da Las Vegas creato con la costruzione della diga di Hoover e lo sbarramento del fiume Colorado. Una grande estensione e raccolta di acqua che custodiva i resti di comunità sommerse come l'abitato di St. Thomas in Nevada, ancora visibile quando il livello del lago scendeva. Nell’immagine sfocata dal tremolio dell’acqua, dalla distanza e dall’oscurità, le sembrò di vedere un piccolo accampamento Navajo: frammenti di una tribù partita dall'Arizona verso la riserva, ora in balia delle oscillazioni della corrente. Niyol "vento" con una piuma bianca segno del suo valore tra i capelli raccolti in una treccia e Sahkyo "visone", seduti in posizione piramidale con le gambe incrociate e le mani sulle ginocchia uno accanto all’altra si guardavano come fuori dal tempo e dallo spazio, sorridenti, in attesa.
In situazione normale, la solitudine non le sarebbe affatto pesata, anzi ne aveva spesso necessità; aveva un carattere chiuso, un po’ introverso e preferiva alle persone la musica e la lettura. Le piaceva la sua malinconia, le consentiva di guardarsi dentro ed ascoltarsi, comprendere sé e capire meglio gli altri.
Ma ora un contatto con un altro essere umano l’avrebbe aiutata, forse aveva sbagliato a non familiarizzare con Alvin. Aveva paura di riposare. A tratti percepiva il suo corpo come fosse fuori dall’acqua, preda di tremori e sudorazione diffusa, una respirazione affannosa, mancanza d’aria, nausea, una sensazione d’inquietudine e la paura di perdere il controllo.
Sudore e gelo si alternavano. Da quanto era lì?
Continuava a sentire quel salmodiare vicino e indistinto. Quel rumore di fondo che non permetteva al silenzio di penetrarla. Era come quando a casa, all’alba, apriva la finestra, respirava l’armonia universale e ogni volta si stupiva di quanto fosse ricca di suoni la voce del silenzio.
Punto, linea, punto… segnali luminosi, lampi dentro dentro la testa. La mente li rileva, ma non riesce a decodificarli. Sarebbe bello poter condividere uno stesso codice per comunicare al di là delle parole. Consapevole delle tante risorse che non sappiamo di possedere, Arianna cercò di concentrarsi sulle informazioni conosciute, ma non utilizzate nel quotidiano.
Di nuovo punto, linea, punto… contò gli impulsi luminosi, cercò di analizzare le differenze tra essi. E se qualcuno che in quel momento le stesse mandando messaggi affidandosi al codice Morse?
Allora punto/linea/punto avrebbe potuto essere la lettera -R- pensò Arianna, e provò a rispondere punto/linea e attese.
Punto, linea, punto…
Le segnalazioni luminose che ricevette la indussero a pensare ad un contatto con qualcuno di nome Robert e mentalmente rispose Arianna.
Sperò che l’energia, la forza, la concentrazione che aveva usato per lanciare quel segnale non si disperdessero e si trasformassero nella mente di un altro, attento ad ascoltare il suo grido d’aiuto.
Robert, il capitano del B-29, nonostante sei ore su una zattera e l’aereo affondato, si era salvato; conservava un legame speciale con quel luogo e spesso riviveva anche in sogno quei tragici momenti. Aveva “sentito” la muta richiesta di aiuto di Arianna ed aveva provato a mettersi in contatto con lei con la sola forza del pensiero.
Prima di svegliarsi dal consueto riposo pomeridiano, le aveva gridato “resisti”, ma non aveva percepito il grazie di Arianna che, dal quel luogo oscuro, aveva trovato una interazione, creato energia e sinergia, aveva costruito ponti tra umani. Doveva essere resiliente utilizzando la mente allenata alla calma.
C’era di nuovo quel sottofondo, come un’orazione a bassa voce che non riusciva a decifrare: la sciarpa di seta scivolò lontano e nel tentativo di riprenderla anche il libro le sfuggì di mano. Si sentì toccare. Allora non era sola!
Doveva farsi coraggio aprire gli occhi e guardarsi intorno. Doveva assolutamente rendersi conto di ciò che stava vivendo cercando di mettere a fuoco la realtà: non era in fondo al lago, ma in un letto.
La stanza era in penombra, intorno i visi cari e preoccupati della sua famiglia. Lei inerme.
Qualcuno le toccava lievemente la fronte asciugandole piccole gocce di sudore gelato. Era stanchissima, estranea a se stessa, quasi come se in fondo a quel lago ci fosse finita davvero. Suo padre le bagnava le labbra con una garza umida, mentre cercava di trattenere una lacrima che incurante gli scendeva sulla guancia mentre gli occhi, nonostante la tensione che mostravano, cercavano di aprirsi ad un sorriso. Percepì un sospiro lieve a lungo trattenuto.
Era riemersa, ritornata alla vita. Il percorso sarebbe stato ancora molto lungo, ma il peggio era passato e lei avrebbe messo tutto l’impegno per guarire al più presto.
L’aspettava un aereo verso l’America.
Il viaggio che stava organizzando prima di ammalarsi era iniziato portandola verso luoghi ancora sconosciuti che avevano suscitato il suo interesse e la sua curiosità. Mentre studiava gli itinerari aveva scoperto tante cose e approfondito tanti argomenti, poi, la potenza della lettura e del sogno che consente, l’aveva aiutata a non mollare.
Per il momento doveva rimandare l’esperienza, ma non vedeva l’ora di partire.
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Immagine: Fotografia