4 dicembre 2024
Ciao Gemma, sono qui con un mazzo di piccole rose rosa, i fiori che ami;
-i fiori sono tutti belli, ma quelli dai colori tenui lo sono ancora di più- eri solita dire e io cerco con attenzione sfumature delicate da offrirti.
Sono già ventisei anni che non ci non ci vediamo, in realtà sei sempre presente. Ogni tanto, come oggi, scendo dai monti verso il piccolo paese nella pianura alla destra del Tevere e ti vengo a trovare; tu dalla foto mi sorridi con garbo e io torno con la mente al nostro ultimo incontro. Conservo con cura i doni che mi hai dato, sono preziosi perché racchiudono l’essenza della tua vita prima di me e attraverso i miei ricordi esperienze vissute insieme, ma… andiamo con ordine.
4 dicembre 1998
Era l'ora del vespro, la sera disegnava ombre incerte e tremolanti al lucore dei lampioni che si andavano via via accendendo. La casa, sulla strada, custodiva la vita della famiglia dal 1932: era quadrata, solida. Nel tempo si era adattata alle crescenti necessità senza perdere la sua struttura originaria.
La chiave infilata nella toppa del portone, indicava la presenza di qualcuno dentro.
Un piccolo ingresso dava accesso, attraverso due porte a vetri, a sinistra alla grande cucina della famiglia di origine, mentre a destra c’era la piccola cucina dello zio Peppino.
A metà di quel vestibolo una bella scala arrivava al pianerottolo dove si affacciavano le camere e un ambiente di servizio, mentre un’altra piccola rampa portava alla soffitta che, per me bambina, è stata meta per tante marachelle.
«C'è nessuno? »
L'interno era quasi buio, ma si sentiva una voce imperiosa e tuonante, aspra. Era quella della signorina Rottenmeier rigorosa ed austera governante della famiglia Sesemann di Francoforte che si prendeva cura della piccola Clara e, come di consueto, rimproverava Heidi.
L'incombente oscurità di quel pomeriggio d’inverno che filtrava attraverso i vetri delle finestre era contrastata soltanto dal bagliore dello schermo della TV accesa.
In quella penombra irreale, nell’angolo, tu sembravi sprofondata nella poltroncina che quasi t'avvolgeva; immobile, la mantellina di lana sulle spalle, i capelli raccolti in una lunga treccia che formava una crocchia alla base della nuca. Li hai sempre portati così. Quante volte da bambina ti ho sfilato le forcine per giocare e tu pudicamente ti affrettavi a rinfilarle sgridandomi bonariamente.
Sembravi perduta in un racconto lontano, solo una lacrima silenziosa dava conto della tua vitalità. Ti voltasti impercettibilmente ed i tuoi occhi, velati di lacrime, si fecero vivi per un attimo. Un uccellino spaurito senza più la forza e la determinazione con la quale avevi affrontato la vita.
«Ciao nonna, sei sola? perché piangi?» ti chiesi sommessamente sedendomi accanto a te asciugando con una carezza quella lacrima che si era fermata sulla tua guancia.
Tu accennasti un sorriso amaro. Eri così riservata Gemma, eppure tra noi c'era confidenza, complicità e tanto volersi bene. E’ stato sempre così.
«Sai, questa storia mi ricorda i dolori della mia infanzia» sussurrasti indicando con lo sguardo il televisore.
Il pensiero non era immobile, ripercorreva la vita passata.
Dal diario di Gemma - 13 settembre 1920
E’ quasi ora di dormire, tra un po’ si spegneranno le luci, non sono abituata al camerone con tanti letti e altre bambine che non conosco. Ieri ho compiuto nove anni e da oggi è iniziata una nuova avventura. Sono venute delle persone a prendermi per portarmi in collegio. Erano un paio di giorni che vedevo la mamma preparare con cura i pochi vestiti che ho, ma non sapevo perché. Era più triste e silenziosa del solito. Quando abbracciandomi e raccomandandomi di essere brava che era per il mio bene, mi ha detto che sarei partita, ha trattenuto a stento un singhiozzo, ma le è scesa una lacrima. Forse ha ragione, il collegio potrà essere un’ancora di salvezza: siamo così povere che a volte è difficile mangiare. Io per non farla soffrire ho cercato di non piangere, ma dentro mi sembrava di morire. Non ho idea di cosa mi aspetta; non so realmente cos’è il collegio.
Abbiamo fatto il viaggio in treno. Era la prima volta che ci salivo anche se l’avevo già visto e avevo sentito il fischio della locomotiva a carbone annunciarne l’arrivo nella piccola stazione del paese. La nostra minuscola casa è poco distante dalla ferrovia e qualche volta sgattaiolavo a ridosso del binario. Restavo lì, da sola, in silenzio, sperando che un treno mi riportasse mio padre Vittorio che non è ancora tornato dalla guerra; hanno detto che forse è disperso. Di lui ho sbiaditi ricordi: un grande mantello scuro e un uomo magro coi baffi che non ho potuto più abbracciare. Mia sorella Evelina che ha due anni meno di me non lo ricorda affatto, mentre Anna che è la più piccola non l’ha ancora conosciuto perché è nata qualche mese dopo che lui è partito per il fronte. Chissà se si incontreranno mai?
In treno è stata una strana esperienza. Ad un certo punto ho visto che la campagna si muoveva, gli alberi e le case ci venivano incontro; per un momento mi è apparsa la Gesuina che raccoglieva l’erba nel campo e Gettulio, il marito, che dava da mangiare alle pecore. Mi sembrava che mi girasse la testa, poi ho capito che eravamo noi che passavamo attraverso le cose. Allora ho guardato il mondo fuori con maggiore attenzione, con la curiosità di vedere posti nuovi. Ogni tanto facevamo una fermata, il treno rallentava fino ad arrestarsi stridendo. C’era un uomo vestito di nero, con la giacca dai bottoni dorati e il cappello con la visiera. Aveva una paletta rotonda ed un fischietto che usava ogni volta che il treno ripartiva.
Abbiamo attraversato tanti posti, ma non ricordo i nomi, solo quando siamo arrivate, scendendo dal treno, con difficoltà sono riuscita a leggere ‘Stazione di Umbertide’.
Se sarà possibile proverò a scrivere qualcosa tutte le sere, così migliorerò e quando tornerò a casa farò vedere alla mamma quello che ho imparato, lei non sa né leggere né scrivere. Sarà un modo di raccontare la mia vita anche al babbo; desidero tanto vederlo. Chissà se i pensieri possono attraversare l’aria e incontrarsi da qualche parte. Spero torni presto.
Una famiglia modesta, una vita faticosa. Maria, la bisnonna, ci ha lasciato quando io ero piccola e lei era già avanti con gli anni, la ricordo bene; una donna austera e dolce allo stesso tempo. Abituata fin da giovane alla fatica era stata una madre che da sola, a lungo vedova senza saperlo, aveva affrontato grandi difficoltà. Andava per i campi a raccogliere quanto poteva per sfamare le figlie, lavorava da un buio all'altro e si rimetteva all'aiuto degli Istituti di Beneficenza.
Dal diario di Gemma - 20 settembre 1920
É una settimana che sono in collegio, ci sono tante cose da fare che è come se la giornata non bastasse e allo stesso tempo ogni giorno sembra non finire mai. Sento la mancanza della mamma, mi chiedo se ci sarà qualcuno ad aiutarla nelle faccende che facevo io quando ero a casa. Povera mamma, speriamo che la mia partenza non abbia aumentato la sua fatica. Io non mi devo lamentare. Ci si alza abbastanza presto al mattino, ma ero già abituata a questo. Una volta che ci siamo lavate, in fila nel camerone con tanti lavandini quadrati, ognuna ha da rifare il proprio letto e a turno, in piccoli gruppi, c’è da tenere pulita la camerata. Chi non fa le faccende dentro, va con Suor Angelina a raccogliere le verdure nell’orto. Lei di solito sta in cucina o nell’orto e accudisce le galline che ci danno le uova. E’ una suora un po’ grassottella con il viso rotondo sempre sorridente; forse comprende che sentiamo nostalgia di casa e ha sempre buone parole.
Alle sette ci troviamo nella chiesetta per le preghiere del mattino insieme a tutte le suore. Dopo, Suor Lucia e Suor Anna ci accompagnano alle attività della scuola. Mi piace poter migliorare la scrittura e la lettura. Ci sono tante cose da fare, molte legate alla vita domestica. Madre Maura, la Superiora, dice sempre che dobbiamo prepararci per quando ci sposeremo. Poi c’è il ricamo, il lavoro a maglia e il cucito. Sto provando a lavorare a maglia e all’uncinetto: devo fare un paio di calze di lana che mi serviranno per i mesi più freddi e una mantellina per le spalle. Non so come verranno.
Qui si fa tutto dentro le mura del collegio, gli spazi sono grandi, ma sento la mancanza delle camminate con la mamma per i campi a cercare l’erba o a raccogliere qualche grappolo d’uva, rimasto sui filari, che i contadini ci permettevano di prendere.
Anche se alcune suore sono severe, abbiamo tutte le mattine una tazza di latte col pane, un buon piatto di pasta con le patate, con i fagioli o altre verdure a mezzogiorno, e la sera sempre un piatto di minestra. Ho mangiato anche l’uovo, il formaggino e domenica le polpette di pane e carne. A casa non avevamo tanto cibo.
Non posso scrivere spesso, devo cercare di non consumare troppo la matita che mi hanno dato e poi, la sera, sono stanca; come a casa anche qui non c’è tempo per giocare.
Leggendo le tue parole ho ritrovato quello che mi raccontavi quando stavamo insieme. L’ambiente educativo fu solitudine, sgomento, riflessione e insegnamento. Un tempo lungo e duro con qualche sopruso patito, ma per fortuna anche delle opportunità. Per le figlie dei poveri l'educazione era basata principalmente sull'economia domestica, l'istruzione era in rapporto al censo e aveva, per casi come il tuo, finalità di promozione sociale di una futura donna sottomessa al marito nel matrimonio, con compiti procreativi e materni. Una ragazza poteva saper leggere e scrivere, ma non doveva pensare troppo; bastava quanto necessario alla conduzione di una famiglia nei suoi aspetti pratici. Tu nonna eri intelligente, operosa, quieta e hai tradotto quegli anni in conoscenza. Oltre che a leggere e scrivere meglio, hai imparato a ricamare di bianco e a lavorare al tombolo.
Dal diario di Gemma - 30 settembre 1920
E’ un po’ che non scrivo. Sono molto impegnata con il ricamo che mi piace tanto; è un lavoro gentile che si fa in silenzio sotto lo sguardo vigile di Suor Lucia. Ci sono dei momenti che ci spiega come si deve fare, quali strumenti usare e a cosa stare attente, poi c’è la pratica. Per ora ci fa usare pezzetti di stoffe rimanenze di lavori già fatti, ma presto si passerà a oggetti rifiniti per le signore che li ordinano e dovranno essere eseguiti senza errori. Ci vuole molta attenzione e pazienza; con difficoltà abbiamo tirato i fili per l’orlo a giorno e il gigliuccio, la stoffa era spessa e l’ago faticava ad attraversare la trama. Suor Lucia ha detto che quando sfileremo il lino tutto sarà più facile.
Dal diario di Gemma -15 dicembre 1920
Oggi ho saputo che un gruppetto di noi ragazze a Natale non potrà andare a casa. Ci speravo, ma capisco che chi sta più lontano deve fare qualche sacrificio in più. Con Annina e Marta, due sfortunate che come me resteranno in collegio, abbiamo deciso che se avremo più di tempo ci eserciteremo con il ricamo. Qualche lavoro inizia a venire benino e Suor Lucia mi sprona a migliorare, dice che sono adatta e se mi impegno quando uscirò potrò fare, del ricamo, un lavoro. Vorrei crederle, ma non so se dove abito ci sono tante famiglie che possono permettersi queste cose. Vedremo.
Forse proprio l'arte del ricamo, elegante e raffinata modalità di trasferire sui tessuti disegni e decorazioni con ago e filo, fu per te un primo germoglio di emancipazione. Quando tornasti a casa eri in grado di ricamare interi corredi per le ragazze di famiglie benestanti e abitini da cerimonia per bambini e neonati.
Attraverso il lavoro e lo studio quegli anni passarono e ogni tanto, quando le suore incontravano le signore che volevano qualche pezzo per i corredi delle figlie, venisti a contatto, seppur in modo fugace, con mondi diversi. In nove anni insieme a una istruzione di base che coltivasti per tutta la vita, sviluppasti una vera e propria arte nelle mani e un piccolo tesoro nella mente. Eri curiosa di leggere, scrivevi con proprietà e bella calligrafia, avevi imparato a pensare in silenzio, a ragionare ed esercitare senso critico sulle cose attenta all’attualità nel suo divenire, accogliente nel comprendere l’animo umano.
Ho sempre avuto molta ammirazione per queste tue qualità.
Dal diario di Gemma - 10 settembre 1929
Ormai scrivo solo quando devo riflettere su aspetti che per me sono di particolare importanza; tra qualche giorno compirò diciotto anni e l’esperienza del Collegio terminerà definitivamente. In questi anni sono tornata a casa solo tre volte e ogni volta mi sembrava di non conoscere nessuno come all’inizio quando arrivai qui. Dovrò farmi coraggio e attraversare il confine protettivo delle mura del collegio per tornare nel mondo.
Dal diario di Gemma – 30 settembre 1929
Nel tempo ho capito che la vita è cambiamento, si cresce attraverso le esperienze e se queste non sono condivise ci sentiamo estranei anche in famiglia. Con la mamma è difficile parlare, le voglio molto bene, ma se ci penso, in fondo non sappiamo nulla di cosa è stato in questi nove anni per ognuna di noi. Quando capisco che la sua vita è stata più dura della mia, mi sento in colpa. Che sarà del futuro? Spero di trovare un lavoro, anche se ho saputo che questo momento è difficile per l’economia; l’Italia è in recessione. Chissà cosa vuol dire esattamente?
Eri una giovane ragazza alla scoperta del mondo, una “gemma” in via di sviluppo, ma quasi un’estranea nella casa lasciata tanto tempo prima.
Dal diario di Gemma - 20 dicembre 1929
Il prossimo, sarà il primo Natale che passerò con la mia famiglia dopo tanto tempo. Ho fatto per loro delle mantelline per le spalle, spero siano contente. Vivo una grande solitudine che non so condividere, mia sorella Evelina quasi non mi parla, sembra che provi rancore per il fatto che sono stata in collegio e lei è rimasta ad aiutare la mamma. Siamo completamente diverse, lei non ama fare nulla delle cose che io ho imparato e non vuole nemmeno sapere come si fanno. Da un po’ va a servizio dalla famiglia che abita nella villa dietro le mura. Una casa inaccessibile se non sei invitato ad entrare: è al centro di un parco, protetta da mura e da due grossi cancelli. Sono benestanti, hanno terreni ed altre attività. Hanno lavoranti per i campi, aiuto per gli animali e domestiche per la casa. Stamattina mia madre ha detto che la signora vuole parlarmi che mi aspetta verso le nove. Chissà di cosa ha bisogno? Certo in paese si sa che tornata dal collegio sono in cerca di un lavoro, ma non vorrei fare la prima cosa che mi capita. Mia madre è rimasta senza parole, quando ho espresso i miei dubbi, mi ha detto che forse il collegio mia ha fatto male, che noi non siamo nella posizione di scegliere e non possiamo rifiutare l’aiuto che viene dalle famiglie importanti, dai padroni. Questo lo so, ha ragione ed è ora che io aiuti di nuovo la famiglia, ma la parola padroni mi ha fatto tremare, ho sentito quasi un dolore allo stomaco come se qualcuno ha il potere di disporre di te: credo che ogni essere umano debba vivere con il rispetto degli altri, in libertà.
Speriamo bene.
Dal diario di Gemma - 21 dicembre 1929
Stamattina mentre attraversavo il giardino a gradoni e ammiravo le piante e i fiori, mi sembrava quasi primavera. Un giardino curato, immenso, bello ma allo stesso tempo estraneo. Ambiente diverso da quello fuori le mura. Mi sembrava quasi una terra sconosciuta da scoprire, un’isola dove dare respiro ai sogni. La casa della signora Carla è immersa nel parco: si vede subito che loro appartengono ad un ceto sociale diverso dal nostro con una certa disponibilità di denaro.
Mi sentivo un po’ intimidita da quella casa grande, austera e squadrata, con i soffitti alti e tanti ambienti comunicanti per diverse attività: all’interno tanti oggetti, tappezzerie, cuscini. Siamo andate in altri ambienti, meno raffinati, più adatti alla mia condizione. Io me ne stavo in silenzio, non sapevo che dire. La signora Carla è stata gentile, ha parlato con la Madre Superiora del Collegio che le ha detto che sono brava nel ricamo. Mi farà fare qualche centrino di prova e se sarà soddisfatta potrò lavorare al corredo delle figlie. Sono rimasta piuttosto sorpresa, aveva già deciso tempi e compenso. Cercherò di fare del mio meglio, non posso perdere questa opportunità, forse aveva ragione Suor Lucia.
Prima di tornare a casa ho visto le figlie della signora Carla, due ragazzine più giovani di me, le ho riconosciute perché mi era capitato di incontrarle un paio di volte in paese, ma loro non danno confidenza a nessuno.
Mentre la TV continuava a raccontare la sua storia tu mi stringevi la mano, ma eri attenta ad ogni avvenimento raccontato sullo schermo come se fosse parte della tua vita. Un suono allegro si era diffuso nella stanza. Nel paesino di montagna gli abitanti si radunavano al suono festoso delle campane ed erano felici.
«Senti? Rinaldo suona le campane a festa. Anche lui fa parte del gruppo dei campanari, insieme siamo parte della comunità» mi dicesti compiaciuta e un po’ commossa cambiando posizione, sporgendoti in avanti come in ascolto.
Ora la storia televisiva nel riportarti indietro, confondeva un po' le cose nella tua mente.
Dal diario di Gemma - 15 settembre 1930
Stamattina mentre andavo dalla signora Carla a consegnare dei lavori ho di nuovo incontrato Rinaldo. Credo che lo faccia apposta a sbucare da dietro la curva: attraversa la strada e cammina al mio fianco fino al cancello della villa. Sono un po’ di volte che cerca di attaccare bottone. Mi ha detto che vuole venire a parlare con mia madre perché non desidera mettermi in difficoltà, lui ci tiene a me e soprattutto non vuole che la gente parli male perché ci vedono camminare accanto. Credo che non sia tanto più grande di me. Vive con la famiglia e i fratelli dall’altra parte del paese. Gli ho detto che ci devo pensare.
Però ad essere onesta sono contenta.
Vi fidanzaste che tu avevi 20 anni e Rinaldo 22. Lui era un giovane operaio laborioso con una solitudine uguale alla tua, cresciuto in una famiglia che gli aveva voluto bene, ma portava nel cuore e nei documenti il cruccio dell’etichetta "figlio di N.N." che intaccava la sua spensieratezza. Qualcuno diceva che l'uomo che l'aveva ospitato, accogliendolo piccolissimo nella sua casa, fosse suo padre, ma lui aveva un altro cognome e anche se era stato sempre rispettato dai "fratelli di latte" trovati lungo il cammino, quel bisbigliare di paese a volte lo feriva: allora, si interrogava sulle proprie radici.
Il vostro cuore parlò la stessa lingua; la famiglia, che non avevate vissuto pienamente da ragazzi, divenne il fulcro del mondo da costruire insieme.
«Nonna, raccontami un po' della tua vita con Rinaldo» dissi.
Dopo un silenzio che mi fece pensare che non mi avesti udita, rispondesti con un filo di voce.
«Sai, all'inizio è stato difficile e faticoso, abbiamo avuto subito quattro figli uno dietro all'altro e poi altri due con più calma. »
Dal diario di Gemma – 23 dicembre 1932
E’ successo di tutto in questi ultimi mesi, dopo un po’ di tribolazioni ci siamo potuti finalmente sposare. Anche fasciandola stretta non riuscivo più a nascondere la pancia e Rinaldo era impaziente. Siamo andati ad abitare nella piccola casa lungo la strada che lui, la sera dopo il lavoro, ha cercato di mettere a posto; finiremo di sistemarla piano piano in base alle nostre possibilità.
Le giornate sono piene, è nata Vittoria. E’ così piccola che abbiamo rivestito un cesto di vimini con l’ovatta e a intervalli regolari mettiamo accanto delle bottiglie di acqua calda per darle tepore.
La casa è un po’ fredda, ma il cesto si sposta con facilità così posso tenerlo accanto a me mentre ricamo, in cucina dove c’è il focolare.
«Era bello avere bambini in casa ed io col mio ricamo, aiutavo la famiglia senza uscire al mattino. Quelli erano anni in cui le famiglie agiate preparavano alle figlie bellissimi corredi ricamati da portare in dote e dato che lavoravo anche al tombolo sono stata sempre cercata. Tra un lavoro e l’altro ho ricamato qualcosa anche per le mie figlie. Erano gli anni in cui le donne cominciavano a lavorare fuori casa, ma lui era geloso, non voleva nemmeno che mettessi il borotalco, diceva che era una inutile civetteria, la considerava quasi una mancanza di moralità; io comprendevo la radice di questi pensieri e non ho mai avuto grilli per la testa. Vedi Bruna, allora il sesso era una cosa dell'uomo, per le donne non era previsto il piacere, magari una carezza, una buona parola, ma solo nell'intimità. Noi donne non avevamo piena cittadinanza, il nostro pensiero rimaneva nel chiuso di casa, nemmeno votavamo. Tante volte ho riflettuto sulla condizione femminile e sulla discriminazione. Qualche brutto momento lo abbiamo passato, ma sempre a schiena dritta. Tuo nonno era socialista, ricordi? In paese si sapeva tutto di tutti e si doveva stare attenti. Ci siamo visti negare tante cose per questo, ma non ci siamo mai lasciati impaurire, abbiamo fatto con il poco che avevamo togliendoci qualcosa per farlo avere ai nostri figli. Lui faceva più mestieri per portare a casa la pagnotta e io lo aiutavo, lo rispettavo, ma non lo temevo e ho cercato di ragionare sempre con la mia testa. Ci alzavamo prestissimo al mattino, io preparavo il cibo da mettere nella gamella di metallo, lui lo scaldava all’ora di pranzo insieme agli altri muratori e lo riportava vuoto la sera.
Poi c'è stata la seconda guerra. »
Dal diario di Gemma - 9 agosto 1946
Rinaldo è chiuso nel suo dolore. Dall’altra sera quando è tornato ignaro del dramma che si era appena consumato in casa nostra e in quelle di altre famiglie amiche, se ne sta a testa bassa, il viso di pietra, immerso in una disperazione senza pianto a chiedersi mille perché. Peppino, il terzo dei nostri figli, sembra diventato muto. Stanotte ha bagnato il letto, non vuole mangiare.
Il dolore ha attraversato la mia famiglia come una spada; sento dentro l’anima il silenzio di un deserto e poi improvvisamente vorrei urlare con la forza di un uragano. Perché mi sono appisolata? Le giornate sono così faticose, è così poco tempo che la guerra è finita e c’è ancora tanto da fare per tornare alla normalità. È forse mia la colpa di quanto è successo?
Il frinire delle cicale era l'unico suono che rompeva il silenzio di quel pomeriggio. Il paese era immobile e con quell’afa era impossibile fare qualsiasi cosa. Gli uomini erano ancora al lavoro. Nelle case, dietro le persiane socchiuse, noi mamme cercavamo di tenere quieti i bambini sperando di farli dormire un po', nell'intento di non sottrarre troppe energie alle faccende quotidiane ancora da sbrigare. Il sonno, pian piano, ha preso il sopravvento sulla fatica. Brunetta, è scesa giù dal grande letto dove mi sono assopita e in silenzio ha raggiunto il fratello Peppino e gli amici Giovanni, Tonino, Righetto e Agnese; tutti piccoli come lei, tra i cinque e i sette anni. Si sono trovati così, come per un appuntamento concordato, sul prato dietro la casa. Un posto tranquillo senza pericoli.
Il torpore che per un attimo mi ha fatto chiudere gli occhi, forse perché sono di nuovo in attesa, è stato subito interrotto dalle loro voci, qualcuno diceva
-non facciamo troppo rumore così nessuno si accorge- giusto il tempo di scendere dal letto, ma quando ho sentito la loro allegria per aver trovato una palla di pezza con cui giocare, era già troppo tardi.
«Dai, dai, raccogli la palla, tira» ha detto Righetto
«Aspetta, qui ce n'è una di ferro» gli ha risposto Tonino
«No, no, non è una palla. Il babbo dice che non bisogna toccare e raccogliere le cose che non si conoscono. Buttiamola via, oltre la rete» ha gridato Giovanni, il più grandicello.
In un istante l'inferno. La bomba al fosforo -residuato bellico della seconda guerra mondiale- ha battuto sulla rete è rimbalza indietro ed è esplosa.
È stato il terrore, i bambini investiti dallo scoppio, urlavano per il dolore e per il calore che ha incendiato i loro vestiti e arso le carni. Piccole torce umane con ustioni su tutta la pelle.
Ecco di nuovo la ferocia della guerra: mi ha tolto il babbo quand’ero bambina e ora si è accanita su piccoli germogli che non hanno più futuro e mi ha tolto la figlia più piccola.
Un’agonia di un giorno, ma Brunetta ha mantenuto intatta la lucida capacità di sentire, a cinque anni, che il viaggio della vita stava per finire. Nonostante il dolore lancinante, nel silenzio della casa e della morte, ha dato voce alla forza dell'amore. «Babbo, non sgridate la mamma. Lei mi aveva portato a letto, ma io ho aspettato che si addormentasse e sono uscita a cercare Peppino. Ci siamo messi a giocare con gli altri e poi bum!» Non ha avuto altre parole, solo un ultimo lieve sospiro.
La guerra fa male sempre, colpisce senza guardare. Sono disperata e nonostante tutto devo reagire per la vita che cresce in me, per sostenere Peppino e Rinaldo. Per aiutare gli altri figli a capire. Spero che qualcuno aiuti anche me.
«Pian piano le cose per fortuna sono cambiate, la nostra famiglia è cresciuta non solo numericamente, ma anche come modo di pensare e di agire. I figli sono andati a scuola, siamo riusciti a far studiare un po’ di più chi ha voluto farlo; non era facile per una famiglia di operai mandare un figlio al Conservatorio Musicale che sembrava una scuola da signori, ma la sensibilità dell'anima non guarda in tasca. Ci sono delle difficoltà che non si vedono da fuori, ma anche se con molta fatica ce l'abbiamo fatta.
Tutti si sono sposati, siete nati voi nipoti ed anche la casa si è adattata alle nuove necessità. Abbiamo lavorato tanto, ogni giorno. Ogni giorno per tutta la vita tranne la domenica e per le festività, quando si mangiava tutti insieme. Ricordi quando eri piccola? Solo voi non abitavate qui, ma quando nei giorni di festa venivate era una gioia. Che tavolate d'inverno, il grande braciere sotto il tavolo per scaldare la stanza e il coniglio che girava sullo spiedo, le fettuccine fatte in casa, le risate, gli scherzi, l'allegria ed il parlare di politica e di calcio. E d'estate le gite in campagna, tutti insieme serenamente, come un piccolo pacifico esercito di uomini, donne e bambini. Eravamo contenti di ciò che avevamo. La vita ci ha dispensato cose buone e disavventure, ma le abbiamo superate insieme sempre con affetto e rispetto, ognuno col suo carattere e la sua sensibilità. Poi Rinaldo mi ha fatto fare un pezzo di strada da sola lasciandomi tanti ricordi nel cuore e una grande famiglia che nel tempo ha trovato autonomia in nuclei più piccoli tutti vicini, come a creare una piccola rete. Avevo ormai imparato a confrontarmi con il mondo, a restare informata su ciò che succedeva alla gente, a prendere decisioni da sola. Ed ora questa ultima prova, questo male che mi toglie ogni giorno energia che mi fiacca nel fisico e ogni tanto mi confonde la mente, mi rende dipendente dagli altri. Sai, non mi piace, non è vita.»
Il programma televisivo era terminato, la tua mente assolutamente lucida. Allora ti ho abbracciato forte perché ogni parola ascoltata era dentro la mia testa, dentro il mio cuore, nel mio vissuto di bambina spensierata che passava l'estate dai nonni. Ti ho ricordato quando da piccola la sera era ora di andare a dormire e in attesa che tu rassettassi la cucina prima di salire, io mi incamminavo col nonno. Lui portava una camicia di flanella lunga fino ai piedi ed una specie di berretto di lana un po’ a punta; ci infilavamo in quel grande lettone appena stiepidito col “prete” e attendevamo il passare delle rarissime macchine sulla strada. I fari attraverso le persiane di legno illuminavano per un attimo la stanza e a quel fugace passaggio di luce io gridavo felice “nonno il cinema, il cinema”. Abbiamo riso insieme di quei ricordi di cose così semplici di tempi lontani.
E poi ti ho svelato l’ultima favola che Rinaldo mi ha raccontato con tenerezza, in auto sul monte in un caldo pomeriggio di agosto, sorridendo serenamente mentre parlava di un lupo: lui aveva 73 anni e io quasi 30, era stato bellissimo e ne conservo ancora oggi un ricordo struggente. Non lo avevo mai detto a nessuno.
«Nonna, che dici accendiamo la luce? vuoi una tazza di latte caldo?»
«Prima per favore vai di sopra in camera mia, voglio darti una cosa, ma per me è diventato molto faticoso fare le scale. Apri l’ultimo cassetto del canterano, c’è una busta bianca con il tuo nome, prendila. Dentro ci sono gli scritti della mia vita, non hanno nessun valore, ma vorrei che li tenessi tu. C’è anche la fotografia della Brunetta.» mi hai detto.
« Ricordi quando guardavi la foto della mia piccola bambina con un bel fiocco tra i capelli, e mi chiedevi sempre - nonna sono io la Brunetta?- ed io ti dicevo, no tu sei Bruna, quella bimba è la sorella della tua mamma e ci guarda dal cielo. Ho scritto di fatica, difficoltà e nostalgia, ma attraverso il dolore, la perdita, il senso di colpa, il silenzio interiore ho saputo riconoscere anche la felicità che per sua natura, non ha parole; è un sentire che ti attraversa mentre la provi e non puoi descriverla. La gioia, i buoni sentimenti puoi condividerli, ma la felicità è fatta di istanti, la provi dentro di te, ti attraversa l’anima. Sappi che le persone e gli affetti sono le cose importanti che abbiamo, conserva i ricordi nel cuore. Ora mi devo riposare, sono molto stanca»
Fuori il buio si era infittito, dovevo riprendere la strada verso casa; per un attimo i tuoi occhi verdi si sono accesi di pagliuzze dorate, mi hai sorriso appoggiandoti alla mia spalla come se, attraverso quel contatto, potessimo scambiarci forza e serenità. Mi hai stretto lievemente in un abbraccio, poi delicatamente hai abbandonato la presa.
Ora la casa è stata trasformata, non è più la stessa nemmeno da fuori; per fortuna i miei ricordi sono intatti.
Immagine: La bigherinaia (particolare) 1883
Silvestro Lega
Collezione Privata