Un grido in gola, un lampo di luce negli occhi e la pelle umida di sudore ghiacciato. Si svegliò così Giorgia, lentamente si tirò su dal letto e come un automa andò sotto la doccia sperando che l’acqua tiepida sciogliesse un po’ della disperazione di cui si sentiva intrisa ogni volta che accadeva.
Le sue giornate erano tristemente segnate e in quei momenti la quiete della sua casa non l’aiutava a liberare la mente dalle scorie prodotte dagli avvenimenti. Doveva uscire dall’isolamento, dal deserto che aveva nell’anima.
Era difficile anche riprendere il lavoro. Nonostante una discreta esperienza di illustratrice di fumetti e favole per bambini, sembrava che la creatività necessaria a tradurre concetti scritti, storie e idee, in immagini visive coinvolgenti per una narrazione avvincente, fosse sprofondata nelle sabbie mobili. Da quando, mesi prima, era stata dimessa dall’Ospedale non aveva prodotto nemmeno una tavola. La stanza adibita a studio che un tempo era il suo mondo era chiusa e la sua sensibilità addormentata. Era come se i pennelli si rifiutassero di assecondare il sentimento di perdita e lei non avesse più empatia con il mondo e i suoi colori. Le era già successo in passato, quando era mancato suo padre, di non essere in grado di esplorare il mistero della morte. Allora la vicinanza della madre Ines e l’incontro con Claudio erano stati fondamentali per una riflessione profonda sui cicli della vita e la sua elaborazione del lutto. Ed ora?
Doveva andare fuori.
La città era ancora assonnata: la sua casa era in pieno centro storico tra le biblioteche di alcune Facoltà Umanistiche dell’Università di Perugia a pochi passi dal Teatro Morlacchi, in via dell’Aquilone. Aveva sempre pensato che fosse il posto giusto per liberare i sogni al vento e farli volare in alto, ma per quanto fosse affezionata a quel luogo, non condivideva più l’allegria della gente rumorosa.
Il medico le aveva consigliato di fare tutti i giorni delle passeggiate senza stancarsi troppo; era passato più di un anno dall’incidente. Non aveva idea di quanto sarebbe durata la sua convalescenza, forse non si sarebbe mai ripresa.
Si ritrovò in corso Vannucci che erano le otto e trenta e la Galleria Nazionale dell’Umbria aveva appena aperto i battenti. Lasciando scorrere lo sguardo sul grande manifesto accanto al portale di accesso a Palazzo dei Priori, constatò che era l’ultimo giorno della mostra dedicata al capolavoro di Gustav Klimt “Le tre età.” Faceva parte del nuovo ciclo espositivo “Un capolavoro a Perugia”.
Sentì come un richiamo, un fremito dentro di sé e pensò che forse, riconciliarsi almeno con l’arte poteva essere uno stimolo per intaccare la sua apatia, una strada per tentare di riprendere in mano matite e pennelli e uscire dal tunnel.
Il Grifo e il Leone l’accolsero con una penombra silenziosa e l’atmosfera di quel magnifico androne, con le pareti di pietra, le diede subito un senso di pace. Era stato sempre così; ogni volta che si trovava in quel posto era come se il tempo si fermasse. Fece il biglietto e salì lentamente al terzo piano. Non c’era ancora nessuno, solo la quiete di un luogo che aveva vissuto tanti avvenimenti e aveva le sue radici tra il tredicesimo e il quattordicesimo secolo.
Il custode del piano le sorrise e le indicò il percorso. Ed eccola immersa nel mondo di Klimt, con le sue opere maggiori pronta ad ascoltare, grazie all’allestimento di una sala virtuale, la descrizione particolareggiata dei dipinti e dei disegni. Un ambiente coinvolgente arricchito dalla composizione musicale “Notte trasfigurata” di Arnold Schoenberg, in sottofondo. Musica e pittura appartenevano allo stesso periodo.
Con il susseguirsi delle immagini sulla parete, la sua mente si trovò a vagare nel ricordo del giorno che anche lei aveva vissuto la sua notte trasfigurata.
Stava tornando verso casa con sua madre e la bimba che da circa cinque mesi cresceva dentro il suo corpo e nel suo cuore, quando l’oscurità che scendeva sulla strada bagnata da una pioggia scrosciante, era stata bucata dai fari di un SUV piombato con un rumore assordante sulla sua utilitaria e sulla sua vita: una fucilata nella testa, poi il buio.
In ospedale era rimasta a lungo in stato di incoscienza. Galleggiava in una specie di prato fiorito tenendo appoggiata al seno la sua bambina in una sorta di freddo abbandono, come se dormisse; intorno un mondo oscuro che tentava di ghermirla. Percepiva in lontananza la voce ovattata di Ester, la sorella di Claudio, senza comprendere ciò che diceva. Quando lentamente era riemersa da quel luogo indefinito, aveva faticato a capire dove si trovasse e perché. Con la mano libera dai dispositivi medici era andata istintivamente ad accarezzare il ventre, un grido le era salito alla gola quando aveva compreso che era ormai vuoto. Si era chiesta e aveva chiesto dove fosse sua madre, per scoprire che non le era accanto semplicemente perché Irma era morta sul colpo.
E Claudio? Perché non veniva a trovarla?
Era il suo compagno da quasi tre anni, era il padre del bocciolo di rosa che non si sarebbe mai schiuso. Quando chiese a Ester la vide deglutire e piangere, ma lei non capiva, a lui non poteva essere successo nulla, non era in auto con loro.
Avevano fatto un progetto insieme: dopo la nascita della bimba si sarebbero sposati. Ora avrebbero dovuto fare le cose con calma lei doveva riprendersi, rimettersi completamente, ma aveva bisogno della sua presenza, del suo conforto, di condividere la speranza.
Seppe che lui si era trasferito; prima si era isolato e poi aveva ottenuto di lavorare nella sede della ditta in un’altra città e se ne era andato. Era scappato. Aveva consegnato ad Ester una lettera per lei, ma Giorgia non l’aveva nemmeno aperta, non le interessava sapere i suoi perché, le scuse che certamente aveva trovato per il suo comportamento, aveva semplicemente e dolorosamente preso atto della sua scelta. La lettera in mille pezzi, l’aveva buttata via, come lui aveva buttato via la loro vita insieme. Era stato devastante, un fulmine a ciel sereno. Non aveva colto nessuna avvisaglia di quanto stava per accadere anche se, andando indietro con la memoria, credette di aver sottovalutato certi comportamenti.
Quando lei aveva scoperto il suo stato di futura mamma si era più volte sottratta alle effusioni di Claudio.
«Tu non hai più bisogno di me, la tua gravidanza è tranquilla, normale, perché
rinunciamo alla nostra intimità? Non siamo in letargo» le aveva detto qualche giorno prima dell’incidente con una punta di risentimento. Lei non aveva saputo rispondere, ma dentro di sé aveva sentito che in quel momento il benessere di sua figlia aveva la priorità.
Non era la prima volta che si lamentava. Da un po’ aveva ricominciato ad uscire la sera con gli amici di un tempo e lei era contenta che si fosse ritagliato uno spazio di svago. Forse era iniziata in quel momento la fine ingloriosa di una storia che apparentemente doveva essere eterna.
In quel periodo di fragilità emotiva, Giorgia aveva vissuto l’allontanamento di Claudio con senso di colpa, come se fosse sua la responsabilità dell’accaduto.
Le sale erano allestite con maestria. Uscendo dal virtuale si trovò all’improvviso difronte a quella grande tela quadrata di quasi due metri per due che dava senso, da sola, a tutta la parete. Non c’era nient’altro intorno.
Così chiara la rappresentazione del tempo che passa: tre corpi femminili tra due ali di pioggia cristallina che scende da una superficie nera compatta. Un omaggio alla complessità del corpo femminile che cambia aspetto nel divenire; atteggiamenti diversi nei confronti delle inquietudini della vita e della morte. Le figure emergenti dal fondo, senza prospettiva, che catalizzano l’attenzione.
Giorgia spostava lo sguardo dalla donna anziana di profilo, inerte, disperata, il corpo flaccido, il ventre prominente, il seno cadente, le mani magre e rugose, alla tenerezza della giovane madre dalle forme bianche, diafane, il viso circondato da una chioma chiara punteggiata da fiori gialli, arancio e d’oro. Sembrava addormentata con la figlia in braccio in un tenero gesto di protezione. Corpi femminili così diversi tra loro e così intimamente connessi. I capelli dell’anziana che sfiorano quelli della giovane quasi appoggiandosi sulla sua spalla come in un continuum del tempo che passa, gli occhi coperti dalla mano a non voler guardare quello è stato. La tenerezza dell’abbandono al sonno della piccola che pur con gli occhi chiusi crea un gioco speculare con la vecchia. La leggerezza del telo appena velato di colore che avvolge in parte le figure di destra e la nudità cruda, espressione del passare del tempo, a sinistra.
Le sembrò, all’improvviso, di essere dentro quel quadro, di far parte appieno del dipinto. Quell’opera magnifica, la condusse in un istante a quanto vissuto dopo l’incidente. Guardava impietrita la giovane donna e l’innocenza della sua bambina dormiente abbandonata sul suo corpo. Quante volte aveva sognato di abbracciare teneramente a sé la figlia, di appoggiarla dolcemente al suo seno. Lei non aveva potuto respirare il suo profumo, godere del calore del suo corpicino.
Perché non aveva saputo protegger dentro il suo ventre quel piccolo fiore? Sentiva forte il rimorso di non essere riuscita a preservare quella vita.
Forse per questo intorno a lei c’era il deserto? L’abbandono di Claudio e l’isolamento che sperimentava ogni giorno erano forse la sua punizione?
Sentiva crescere in sé un forte disagio.
Guardando la figura di sinistra, lo spettro della vecchiaia le appariva evidenziato dal colore opaco della pelle, lo percepiva come se già le appartenesse, e quella mano che nascondeva il viso per non vedere ciò che poteva essere e non era stato le dava la misura della sua solitudine.
Sentì le lacrime scenderle copiose lungo il viso fino alla base del collo, prepotenti, inarrestabili come un fiume in piena. Prima silenziose, poi accompagnate da singhiozzi e impercettibili lamenti. Lei che non aveva mai pianto dal giorno dell’incidente, finalmente pianse per sua figlia, per sua madre e per quello che restava della sua vita.
«Non si sente bene? Ha bisogno di qualcosa? Mi chiamo Caterina, vuole sedersi un
attimo nel salottino qui accanto? Ha bisogno di bagnare il viso?»
La giovane custode della sala le era accanto.
Giorgia non si era nemmeno accorta della sua presenza, fece di no con la testa e cercò un fazzoletto dentro la borsa. Il pianto non si arrestava, aveva trovato un varco per uscire dalla sua anima ferita. Non riusciva a smettere, ma le lacrime erano tornate a farsi silenziose.
Si accorse allora che la mostra si andava animando di nuove presenze e si lasciò accompagnare.
Sciacquando il viso e bagnando i polsi lavò via anche un po’ della tensione accumulata: ricompose così la sua riservatezza custode dei sentimenti e dei pensieri più profondi, ancor di più in quell’ultimo anno quando le era sembrato che tutto il suo mondo si fosse frantumato.
La sua quotidianità di punto in bianco era cambiata radicalmente, anche la telefonata settimanale con Ester stava perdendo di significato; pian piano non avevano più nulla da condividere. Era sprofondata in una solitudine che a pensarci bene non le era del tutto nuova, ma solo in quel momento ne ebbe piena consapevolezza.
Rimase assorta, in un silenzioso raccoglimento a guardare fuori dalle grandi finestre che davano luce al terzo piano, sperando che dal cielo potesse giungerle un po’ di serenità.
Ringraziò Caterina per il modo garbato con cui l’aveva aiutata, poi, tornò all’ingresso e uscì dalla magica penombra di quel luogo.
La vitalità e la luce di Corso Vannucci la investirono col tepore del sole di un giorno ormai pieno e una brezza leggera le accarezzò il viso lungo tutta la strada verso casa: per un momento si sentì riconciliata con la vita.
Pensò che l’arte l’aveva aiutata, ora lei doveva aiutare sé stessa.
Non avrebbe certamente mai dimenticato quanto le era accaduto, ci sarebbe voluto del tempo prima che la ferita, ancora sanguinante, diventasse cicatrice, ma una cosa le era più chiara: aveva bisogno di un sostegno. Decise che avrebbe subito preso gli appuntamenti per le sedute settimanali di psicoterapia e fisioterapia che rimandava da troppo tempo.
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Immagine: Le tre età della donna (Particolare) – 1905
Gustav Klimt
Roma, Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea